Tutta colpa del neoliberismo?La strategia del Pd: parlare agli elettori grillini per vincere al sud. Sicuri che funzioni?

La scelta di Emanuele Felice come nuovo responsabile economico racconta molto del nuovo corso del Partito democratico. Che cosa succede però se nel frattempo i ceti produttivi e il nord non si sentiranno più rappresentati?

Foto tratta dal profilo Twitter di Nicola Zingaretti

La nomina di Emanuele Felice come responsabile economico del Partito democratico mostra quanto sia cambiato il centrosinistra italiano. Felice possiede delle caratteristiche che ben descrivono l’operazione politica del segretario Nicola Zingaretti: è del sud, da editorialista di Repubblica ha più volte denunciato la crescita delle diseguaglianze, ha posto la questione meridionale in cima alle priorità delle politiche pubbliche ed è un convinto sostenitore dell’intervento dello Stato nell’economia. Insomma, la scelta è ponderata: Emanuele Felice è parte della strategia che il centrosinistra sta percorrendo per provare a essere competitivo anche al sud, area del paese dove il Partito democratico ha sempre avuto grandi difficoltà. Felice fa parte di un gruppo di intellettuali schierati a sinistra, da sempre vicini al Partito democratico ma critici con la stagione renziana, come l’ex ministro Fabrizio Barca. Peppe Provenzano, ministro per il Sud e uomo molto importante nella costruzione della segreteria di Nicola Zingaretti, è un altro esponente di questo mondo, ieri impegnato in centri studi, università e riviste, oggi architrave della linea politica dei democratici. E, a dimostrazione del percorso comune, Emanuele Felice ha scritto un lungo saggio proprio con Peppe Provenzano in cui è possibile leggere quale sia la filosofia del nuovo Pd. Ed è molto lontana dal liberalismo, che pure i due autori dichiarano di voler salvare.

La rivista è Il Mulino, ed è diretta da Mario Ricciardi, professore di filosofia del diritto alla Statale di Milano, editorialista del Sole 24 Ore e altro intellettuale parte di questa galassia. Nell’editoriale di apertura del numero 6 del 2019, i due economisti mostrano di avere ben chiara la radice della crisi delle democrazie occidentali, causata dalla «drastica riduzione dell’intervento pubblico nell’economia, il primato dei mercati deregolamentati e la rinuncia a operare nel verso della giustizia sociale, un’integrazione europea “minimalista” che non ambisce a correggere i meccanismi distorsivi della competizione globale, né a contribuire in modo sostanziale alla costruzione di un nuovo ordine internazionale fondato sui diritti dell’uomo». Sempre nello stesso saggio, Felice e Provenzano danno una visione piuttosto caricaturale del pensiero neo-liberale, che avrebbe «ridotto la complessità umana alla sua dimensione economica; per di più, a un’economia limitata a transazioni di mercato nel nome del solo interesse individuale. Anche la politica, la società, la sfera culturale, le stesse relazioni umane e gli affetti sarebbero inquadrabili in questa logica, e lì devono ricadere».

La visione è chiara, e lascia spazio a pochi dubbi, per il nuovo responsabile economico del Partito democratico bisogna: «Salvare il liberalismo da se stesso con un nuovo socialismo». Tuttavia, interrogato nel novembre 2019 da Linkiesta sul reddito di cittadinanza, immaginato dal Movimento Cinque Stelle proprio come uno strumento per risolvere le contraddizioni del sistema neo-liberale e per dare una risposta ai problemi del sud, Felice dà una risposta non scontata: «Per contrastare la povertà è una misura rispettabile. Per rilanciare la crescita del Sud è fondamentalmente inutile. Si tratta di una misura assistenziale rispetto al fallimento di una vera politica di rilancio del Mezzogiorno». A dimostrazione di quanto teoria e pratica possano essere lontane.

Secondo Lia Quartapelle, che è milanese e non certo esponente dell’area più di sinistra del partito, quello del Mezzogiorno è la «Prima diseguaglianza del paese» e «Emanuele Felice può dare una mano al partito, che sottovaluta da tempo la necessità di avere una visione per il sud». Il rischio, dice Quartapelle, è considerare una grande area del paese come irrecuperabile anche dal punto di vista del consenso: «Esistono flussi sui voti in Calabria come quelli elaborati dall’istituto Cattaneo per l’Emilia-Romagna? Io non ne ho visti. Direi che c’è una sottovalutazione dei problemi del Mezzogiorno e questo si ripercuote anche sui nostri risultati elettorali. Se oggi il Pd nei sondaggi vale tra il 18 e il 20 % è perché al nord supera il 24% mentre al sud è inchiodato al 13%. Milano cresce ma non riesce a sfondare perché esiste un problema serio al sud».

Se Zingaretti ha scelto Felice è anche per parlare all’elettorato sedotto dal Movimento Cinque Stelle, dalle sue risposte alle diseguaglianze crescenti e all’abbandono del sud da parte dello Stato. Di questo è convinto Marco Sarracino, segretario del Pd napoletano, esponente della sinistra e molto vicino al vice segretario Andrea Orlando: «La lotta alle diseguaglianze era un tema che avevamo messo in soffitta. La competenza di Felice può aiutarci a tornare credibili e appetibili nei mondi che non ci votano più. Poi certo, c’è un tema di classe dirigente: non sarà certo lui a contendere le periferie alla Lega e al Movimento 5 stelle. Bisogna lavorare anche su questo, altrimenti la teoria non ci serve». Sarracino è il regista dell’operazione politica che ha portato il Partito democratico a sostenere la candidatura del giornalista Sandro Ruotolo alle elezioni suppletive per il collegio 7 del Senato, che comprende i quartieri dell’area nord di Napoli. Un nome che ha trovato l’accordo del sindaco di Napoli, Luigi De Magistris, ma non del Movimento Cinque Stelle: «I fatti dicono che in quel collegio il Movimento Cinque stelle ha raggiunto il 53% e in alcuni quartieri ha superato il 65%. Noi lo abbiamo reso contendibile, uscendo dall’isolamento con un un nome che potesse dialogare con quell’elettorato: posso capire che non piaccia a tutti, ma candidare una persona incapace di parlare a quegli elettori era un’idea perdente. Il Movimento Cinque stelle ha deciso di non allearsi con noi nonostante Sandro Ruotolo fosse un candidato vicino alla sua sensibilità. La scelta dell’isolamento non paga, basta guardare l’Emilia-Romagna». La strategia è in effetti simile a quella condotta in Emilia-Romagna, dove pure il Partito democratico ha provato in tutti i modi ad allearsi con il Movimento Cinque Stelle senza riuscirvi. La differenza, sostanziale, è che Stefano Bonaccini è un uomo del Pd, Sandro Ruotolo non lo è affatto. La parte difficile, per Nicola Zingaretti, è riuscire ad allargare il perimetro del partito senza snaturarlo. A meno che non si decida che la natura dei democratici è ormai inscindibile da quella del Movimento Cinque stelle.

L’altro rischio per il Pd è il «convegnismo», affidarsi a intellettuali, economisti e giornalisti bravi a produrre analisi, meno a trovare una sintesi e soprattutto a creare consenso elettorale. Soprattutto perché Felice e Provenzano, pur d’accordo sulla critica al neo-liberismo, hanno due visioni molto distanti proprio sulla crisi del Mezzogiorno. Nel 2013 Felice pubblicò, sempre con Il Mulino, Perché il sud è rimasto indietro, un saggio con una tesi netta: la responsabilità dell’arretratezza del Meridione è delle sue classi dirigenti, che hanno dirottato le risorse verso la rendita più che verso processi produttivi. Peppe Provenzano rispose con un lungo articolo sulla rivista economica del Mezzogiorno, criticando il lavoro di Felice, perché «manca completamente il filone delle politiche pubbliche» e «si presta alla strumentalizzazione» di chi addossa tutte le colpe del divario al sud medesimo. Verrebbe da chiedere: qual è la linea del Partito democratico su questo tema?

Il filosofo Massimo Adinolfi spiega a Linkiesta che il Pd corre il rischio che queste persone abituate a dibattere sulle riviste non riescano a tradurre politicamente il loro pensiero: «Se lei mi chiede qual è il progetto del Partito democratico per il sud io non riesco a vederlo. Provenzano e Felice, per fare due nomi, sono persone di indubbie risorse intellettuali, ma il il rischio è che queste anime si esprimano nel dibattito senza misurarsi con la realtà. Voglio dire, il Pd nel Mezzogiorno viene apparentato ad amministratori come De Luca, Emiliano e Pittella, una classe dirigente che si autoperpetua. L’atteggiamento del partito rispetto a queste due esperienze è molto ambiguo e contraddittorio: non si ha la forza per proporre candidature alternative, ma nemmeno il coraggio di dire che i due governatori rappresentano un’ottima esperienza amministrativa e che quindi è giusto ricandidarli. Queste non sono questioni secondarie, vanno risolte».

Se il sud è un tema, lo è anche il nord. Anche perché lo stato di salute del Pd, in molte regioni settentrionali, è simile a quello in cui versa al sud: tanto la Calabria era stata data per persa, quanto il Veneto è considerato imprendibile. Le elezioni in Emilia-Romagna però, insegnano che non esistono più risultati acquisiti, e quindi anche il nord deve avere una priorità importante nell’agenda del Pd. Giorgio Gori, sindaco di Bergamo ed esponente dell’area più liberale del partito, ci spiega che dimenticare il nord sarebbe un errore: «Il Sud è in condizioni drammatiche e sarebbe folle non occuparsene. Esiste però anche una questione settentrionale, fatta di dinamiche molto diseguali tra i territori, di eccessiva frammentazione del tessuto produttivo e di insufficiente tasso di innovazione della maggior parte delle imprese. Non possiamo abbandonare questi temi».

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