Let Mario be MarioGli scatoloni di Mattarella e la risposta perfetta di Draghi

Il premier ha fatto benissimo a escludere categoricamente di voler fare politica centrista nel 2023. Del resto non è né Mastella né Toti (quello che inseguiva i Ciampolillo era il suo predecessore). Non è nemmeno Monti. È soltanto il più adatto a risanare e a rilanciare l’Italia. E comunque a Palazzo Chigi forse hanno imparato la lezione di tecnica politica del Capo dello Stato

LaPresse

E meno male che Mario Draghi ha escluso categoricamente di voler federare il centro e altre piccinerie da talk show tipo quella, a lui invero più cara, del semipresidenzialismo di fatto.

Mario Draghi non è Mastella né Toti, parlandone con rispetto. Quello interessato a federare i Ciampolillo e le frattaglie volenterose notoriamente è il suo predecessore e avvocato del populismo uno, bis, sedicente tris con superbonus al 110 per cento.

Mario Draghi, invece, è uno soltanto. Draghi non è nemmeno Mario Monti e, infatti, naturalmente e giustamente ha detto con fermezza mista a fastidio di non volersi impegnare in politica.

Una risposta perfetta, intanto perché chi da tempo auspica che Draghi continui a governare fino alla scadenza della legislatura e poi che, dopo le prossime elezioni del 2023, torni a guidare il governo non si è mai sognato di immaginarlo alla guida di uno schieramento politico, figuriamoci in qualità di federatore di un fantomatico centro (siamo in pochi ad auspicarlo: questo giornale e Stefano Folli di Repubblica, Giorgio Gori e gli azionisti e radicali).

”Draghi rischia di fare la fine di Monti” è un classico argomento fantoccio, una fallacia logica di chi confuta una tesi seria proponendone una rappresentazione distorta. Chi voleva, vuole e vorrà Draghi a Palazzo Chigi è sempre stato mosso dalla necessità di sostenere un governo efficace, efficiente e con la testa sulle spalle su economia e pandemia. E poi, all’inizio della prossima legislatura, magari grazie anche all’attribuzione dei seggi parlamentari ai partiti in proporzione ai voti ricevuti, dall’idea che le forze politiche repubblicane, europeiste e atlantiche possano indicare durante le consultazioni con il Capo dello Stato il nome di Mario Draghi come Presidente del Consiglio, per completare l’attuazione del piano di ripresa nazionale ed evitare di sprecare l’occasione di far ripartire la società italiana.

In molti non l’hanno capito, ed è evidente che i consiglieri impolitici di Draghi mostrino ancora il broncio come adolescenti cui è stato bucato il pallone a causa del fallimentare tentativo di traslocare al Quirinale. Anche nei toni del premier traspare una certa insofferenza per come sia andata a finire, ma la risposta di Draghi è perfetta anche perché, consapevole o no, il team di Palazzo Chigi potrebbe aver imparato la lezione chiamiamola ”degli scatoloni di Mattarella”, quella secondo cui il modo migliore per essere pregato di restare in un posto di prestigio e di potere è quello di negare, negare e negare di volerlo fare.

Il ritrovato dinamismo del governo e i numerosi obiettivi da raggiungere per ricevere la seconda rata di finanziamenti europei, dopo che ci era stato spiegato che la missione era stata compiuta, dimostrano la necessità di avere Mario Draghi ancora a Palazzo Chigi e non al Quirinale, dove al massimo avrebbe potuto rifare il cappotto termico col superbonus e non cominciare a smantellare l’impalcatura della facciata di cittadinanza decisa dal governo Conte.

Il Draghi migliore è quello che governa, non quello cui si chiede di fare un altro mestiere. Lasciate che Draghi faccia Draghi.

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