A casa del dottoreQuella caotica sera del 1996 nel quartier generale di Berlusconi

Un piccolo ricordo sull’uomo più potente d’Italia che si schiacciava un pisolino strategico in mezzo al circolo più ristretto di amici e collaboratori, tra una bibita e un telegiornale

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Beppe Pisanu si gratta la testa piegata sul casino di tutti quegli appunti, quei fogli pieni di nomi, freccette, crocette, «sì», «no», «Qui prima bisogna chiedere a Silvio», «Però sentiamo cosa dice Gianni Letta», «Ma questo nei processi come sta messo?»: sono i giorni e le sere e le notti in cui i plenipotenziari operativi di Forza Italia armeggiano con le mappe dei collegi in cui allocare gli eserciti dei candidati alle elezioni politiche di quel lontano millenovecentonovantasei. «Insomma», dice infine il vecchio democristiano, esausto perché sono troppi i nomi da piazzare in un paio di posti strategici, e non c’è verso di trovare la quadra: «Questo lo mandiamo qui, quest’altro lo mandiamo là: ma questo dove lo mandiamo?», l’indice puntato sul nome esuberante. Quella che si dice una citofonata, con Cesare Previti lì davanti: «Allora, uno lo mandiamo lì, uno lo mandiamo là… e quell’altro lo mannamo affanculo».

Ma escludere un nome non era sempre facile. Occorreva, prima, fare complicatissime e labirintiche ricognizioni delle amicizie, delle alleanze, delle ambasciate, delle raccomandazioni che avevano imposto in quegli elenchi i nomi di Tizio o Caio: questo lo ha segnalato il vescovo, questo è un coglione ma è cugino di quello, a questo glielo abbiamo promesso, se no va con gli altri, «questa dice Silvio che ’l’è na bela tosa» (una bella ragazza, e lascio immaginare come risuonasse in inflessione sassarese quel tentativo di riprodurre l’espressione meneghina). 

Vagliato tutto, si trattava poi di far digerire la composizione agli alleati; e si andava al Plaza, dove le contrapposte ambizioni, i colpi bassi, i ricatti incrociati, le carriere abortite e le strade spianate, la liturgia dei finti sorrisi e degli abbracci mortali nella conglomerata di centrodestra si squadernavano nel circo variopinto dei maggiorenti, dei capibastone, dei portaborse, delle vallette, dei consulenti, degli avvocati, dei commercialisti, degli addetti all’immagine, tutti a reclamare udienza per spiegare che sì, d’accordo, capisco, lo spirito di servizio, l’interesse del partito, gli equilibri della coalizione, certo, per carità, tutto giusto, ma insomma ho lavorato tanto, non ho mai chiesto niente: adesso il collegio me lo dovete, me lo merito. 

Ecco allora Fabrizio Del Noce: «Ormai, con le posizioni che ho preso, in Rai ho chiuso, ditelo a Silvio che ho bisogno di un collegio sicuro» (finì trombato). Ecco Clemente Mastella, furibondo con Paolo Vigevano, inviato di Pannella, perché «Con voi dentro ci giochiamo tutto il voto cattolico! Tuttooooooooooo!» Ecco Antonio Tajani, kennediano: «Io non ho niente da chiedere: io ho tutto da dare al Movimento e a Berlusconi». Ecco Ignazio La Russa, imbufalito non ricordo più per che cosa: «Ci fottono, ci fottono, così è la fine di Alleanza Nazionale!». Ecco Alberto Michelini, ex Tg1 e timoratissimo woytiliano, che, presentando un suo protetto, serissimo, spiega: «È un ragazzo molto devoto…»; al che uno di cui ometto il nome bisbiglia: «Devoto, devoto… E che viene a rompe er cazzo a noi? Vada a bussà ’n Vaticano».

Ma il meglio era la sera, a casa del “dottore”, dov’era convenuto un circolo più ristretto di amici e collaboratori. Ricordo enormi divani bianchi accostati a mobili che rammostravano argenterie, fotografie incorniciate, e un corridoio che portava in una specie di tinello pittato di giallo, disadorno di tutto ma non della dotazione inevitabile, eminente in tutto quel vuoto: il televisore. Leonardesco, armato di telecomando, Silvio Berlusconi sedeva al centro della fila apostolare affacciata sullo schermo. Il dottore, contrariato perché Enrico Mentana stava diffondendosi a riportare chissà quale dichiarazione di un avversario, affettava indignazione in favore di quella sua piccola platea: «Questo disgraziato dà più spazio ai comunisti che a noi!», e lì era una girandola di «Hai ragione Silvio, è uno schifo!», «Bravo presidente, ma gliele suoniamo lo stesso!», «Loro hanno i giornalisti, dottore, ma lei ha i voti dell’Italia perbene!». 

Al che si placava. E non so se facesse finta, ma in quel bordello, con la tv a tutto volume e nel contrapporsi delle chiacchiere e nei rimpalli delle battute degli ospiti, lui piegava indietro il capo, appoggiato sull’incrocio delle mani dietro la nuca, e così si addormentava o almeno mostrava di farlo. Uno dopo l’altro si zittivano tutti, e il sonno vero o finto del dottore proseguiva per qualche buon minuto nell’inesausta colonna sonora di quel televisore. Finché gli toccava piano la spalla Gianni Letta, seduto alla sua destra: «Silvio, sono arrivati i sondaggi…». Pare fossero mica male, e ci stava un brindisi. Mi aspettavo che l’inserviente enumerasse gli illustri distillati e i cocktail fragranti che sapevo esclusi dalla dieta di Berlusconi ma che speravo non vietati agli ospiti meno salutisti come me. Macché: «Coca Cola per tutti, dottore?».

Niente, così, qualche ricordo recuperato alla rinfusa. Rivedo quella stanza gialla, così spoglia, e penso che allora non avrei potuto immaginarla più vacua di quanto mi apparisse. Non pensavo al giorno in cui l’uomo che lì schiacciava un pisolino tra una bibita e un telegiornale sarebbe andato a dormire altrove e per sempre. Non ho ancora detto che diavolo ci facessi lì, io che per Berlusconi né per altri del suo giro avevo mai votato (né l’avrei fatto poi). Scrivevo sul Giornale, e immaginavo che fosse interessante conoscere quel che si diceva e decideva in quelle stanze. Non immaginavo che sarebbe stato così divertente.

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