Un’altra volta ancoraLiquidare una serie di cose, persone o fatti usando un avverbio

Quando non si ha troppa voglia, spazio o capacità di articolare in un discorso più approfondito e, dopo essersi soffermati soltanto su alcuni, si risolve sbrigativamente con un arido elenco. La congiunzione utilizzata nella lista è però un errore

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L’articolo ricordava che le rotte della droga «prima partivano dalla Russia, dall’Afghanistan, dai Balcani, e ancora dal Sudamerica verso il porto di Odessa», per spiegare che dopo l’inizio dell’invasione russa in Ucraina, «con la chiusura del porto di Odessa e con la militarizzazione massiccia della regione, e ancora con la pressione ai confini, i flussi si sono presto riorganizzati».

No, non si parlerà qui di droga, né della guerra che da troppo tempo insanguina la periferia orientale dell’Europa. Ci incuriosisce piuttosto quella innocua e un po’ abusata paroletta, “ancora”, che fa capolino un paio di volte in poche righe di un ritaglio di giornale. Esempio tra gli innumerevoli di un utilizzo diffuso, nella classica forma “e ancora”, quando si ha a che fare con una serie di cose o di persone o di fatti che non si ha troppa voglia – o non si ha lo spazio o la capacità – di articolare in un discorso più approfondito e, dopo essersi soffermati soltanto su alcuni, si liquidano sbrigativamente i rimanenti con un arido elenco. Esponendosi magari a qualche ambiguità. Restando al nostro caso, vorrà dire, nella prima occorrenza, che le rotte, oltre che dalla Russia, dall’Afghanistan e dai Balcani, «continuavano a partire dal Sudamerica»? E, nella seconda, che la riorganizzazione dei flussi è stata determinata, oltre che dalla chiusura del porto di Odessa e dalla militarizzazione della regione, che sono sviluppi nuovi, dalla «perdurante [quindi inveterata] pressione ai confini»?

L’equivoco è teoricamente possibile, perché “ancora” ha come primo significato (virgolettiamo dal vocabolario Zingarelli) quello di indicare «continuità di un’azione, di un fatto o di una condizione: stava ancora dormendo; dovrò faticare ancora per molti mesi prima di concludere la mia ricerca; c’è ancora un po’ di torta». La parola è di formazione piuttosto incerta – dalla locuzione latina (ad) hanc horam, a quest’ora, oppure (attraverso il francese antico encore) da hinc ad horam, di là fino a quest’ora – ma in ogni caso marcata da una precisa connotazione temporale.

Dal punto di vista grammaticale si tratta principalmente di un avverbio, ossia una di quelle parti invariabili del discorso che hanno la funzione di determinare il significato di un verbo, di un aggettivo o di un altro avverbio. Alla temporalità fanno riferimento anche le tre successive accezioni registrate dallo Zingarelli: «Fino a ora, per ora: non si è visto ancora; non è ancora pronto. A quel tempo, allora: io ero ancora bambino; non avevo ancora approfondito la cosa. Di nuovo, un’altra volta, per indicare il ripetersi di una cosa o di un’azione: vieni ancora a trovarmi; proverò ancora». Mentre se ne discostano le ultime due: «In aggiunta: ne vuoi ancora un po’?; resta ancora dieci minuti. Persino, specialmente come rafforzativo di un comparativo: tu sei ancora più fortunato di me».

A nessuno di questi valori semantici si può ricondurre l’uso del termine nel brano giornalistico citato all’inizio. Qualche volta, però, “ancora” può anche essere una congiunzione, ossia una di quelle parti invariabili del discorso che servono a collegare due o più parole all’interno di una proposizione o due o più proposizioni all’interno di un periodo. È questo il nostro caso: lungi dal precisare il senso di verbi o aggettivi o avverbi, “ancora” svolge qui una funzione di raccordo tra i nomi che precedono e quelli che seguono, in quanto congiunzione coordinativa copulativa. È come se al suo posto leggessimo “inoltre”, “anche”, “pure” (che potrebbero opportunamente sostituirsi nella prima occorrenza), “oltre a ciò”, “per di più” (nella seconda).

Il problema è che questi significati coordinativi copulativi di “ancora” non sono suffragati da alcun dizionario della lingua italiana. Lo Zingarelli cita bensì un luogo di Carlo Goldoni («le voglio bene ancor io») in cui la parola ha il valore di “anche”, precisando però che è di uso letterario – quindi aulico, lontano dall’uso prosaico dei nostri giorni. Ulteriori accezioni (ivi) «sebbene, quantunque, ancorché (introduce una proposizione concessiva con il verbo al congiuntivo): ch’i’ ti conosco, ancor sie lordo tutto (Dante, Inferno, VIII, 39); nondimeno: se voi non lo mi concedete, ancora andrò (Giovanni Boccaccio)». Come si vede, sono tutte attestazioni antiquate, accezioni obsolete che, anche quando sembrano avvicinarsi all’improprio uso corrente, difficilmente potrebbero averlo influenzato.

E quindi come si è giunti ad assegnare a “ancora” la funzione di una congiunzione coordinativa copulativa? Forse, per paradosso, ci si è arrivati proprio attraverso la funzione avverbiale. Alle origini di questa stravaganza del parlato – e ancor più dello scritto – si può ipotizzare l’ellissi di un verbo tipo “aggiungere”, che il successivo “ancora” determinerebbe comportandosi così da avverbio: nell’esempio del nostro brano, «dalla Russia, dall’Afghanistan, dai Balcani, e [aggiungiamo] ancora [= a ciò, oltre a questi] dal Sudamerica», a cui segue «con la chiusura del porto di Odessa e con la militarizzazione massiccia della regione, e [aggiungiamo] ancora [= oltre a questo, per di più] con la pressione ai confini…».

In effetti tra avverbi e congiunzioni i confini grammaticali sono spesso labili, tanto è vero che alcune parole si trovano inserite indifferentemente nell’una o nell’altra categoria. Non è un problema, perché la grammatica interviene sul linguaggio ex post, nel tentativo non sempre riuscito di regolarlo. Il vero problema è quando, senza solide ragioni, per inerzia imitativa, si usa una parola per un’altra, e di improprietà in improprietà si finisce con il logorarne il senso.

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