Un mondo di rispettoIl rugby è uno sport nobile, non lo specchio dei valori neofascisti (ma questo l’Economist non lo sa)

Il magazine britannico ha scritto un manifesto contro la palla ovale, considerata uno sport tipico dell’ultradestra e dei sovranismi. In realtà è una disciplina di piccoli gesti rivoluzionari, inclusiva e corretta

AP/Lapresse

Pochi giorni fa All Blacks e Irlanda hanno giocato quello che gli anglosassoni chiamano a match for the ages, una partita memorabile, un quadro in movimento. Nel finale durissimo e ipnotico gli All Blacks hanno difeso il risultato per trentasette fasi. Per trentasette volte gli irlandesi hanno sollevato il pallone e si sono schiantati contro una muraglia in movimento, quindici uomini a protezione di una linea, minuti di lotta intensa senza mai un atto di indisciplina, un fallo che avrebbe rovinato tutto.

La squadra più amata e spettacolare del mondo alle prese con un saggio di sofferenza e sacrificio che nemmeno li avesse allenati Churchill. I mondiali di rugby francesi hanno sedotto centinaia di milioni di spettatori, hanno confermato l’amore incondizionato di britannici, francesi e di tutto l’emisfero Sud e hanno conquistato nuovi tifosi.

Il rugby ha questa magia unica dello sport di lotta ma non di caos, di contatto ma non di violenza gratuita e il messaggio diventa ancora più potente perché è confermato dai comportamenti dei protagonisti.

Quella famosa e ormai scontata scala di valori che più o meno a proposito viene contrapposta allo sprofondo etico del calcio, alla voragine senza fine. Banale, molto. Vero, molto.

Negli stessi giorni di questo trionfo plastico e incontestabile l’Economist butta lì una provocazione a firma Charlemagne, editorialista europeo tra i più letti della testata. L’assunto è semplice: il rugby e i suoi valori sono terreno di coltura perfetto per la cultura populista e le sue derive valoriali. Anche questo banale, anche questo abbastanza vero ma troppo strumentale alla tesi.

Ho lavorato per due anni e mezzo nel rugby professionistico e ho avuto accesso a un punto di vista privilegiato sullo sport e sulle sue persone. Non che Charlemagne menta, il rugby ha un fascino muscolare e ruvido che nelle sue manifestazioni più evidenti, più radicali ha una traduzione facile per i nuovi populisti e la vecchia destra post fascista. La disciplina, il cameratismo, la lotta, il coraggio. Tutta roba facile da ammonticchiare e raccontare come perfetta scala valoriale della destra.

Il fatto è però che il rugby è molto di più e che resiste ai tentativi di appropriazione culturale. Che a Giorgia Meloni piaccia il rugby non è un mistero e non è ammiccamento dell’ultima ora. Sempre presente all’Olimpico per le partite del Sei Nazioni, conosce il gioco e lo apprezza da tempo. Che lo abbia usato come strumento di propaganda non risulta e nemmeno che abbia rapporti stretti con la Federazione.

La politica e il rugby corrono su binari paralleli e anche se capita molto spesso che quei celebratissimi valori vengano presi a esempio e mal interpretati non accade certo per iniziativa del rugby e dei rugbisti, i quali (più o meno) placidi come bovi sani e allegri continuano a menarsi, abbracciarsi, bere birre e ridere di concetti minimi come abbracciarsi, menarsi, ruttare e scorreggiare insieme.

Il saccheggio di metafore è aperto a tutti, poi per fortuna lo sport non è metafora. In Italia il rugby è o è stato un gioco da fascisti, come ripetono alla nausea i più accaniti detrattori? Anche, certo che lo è stato.

Il rugby lo giocano tutti, alcuni cercano di usarlo ma per fortuna a giocare a rugby ci si fa male e passa la voglia di dire scemenze. Charlemagne cita poi l’esempio dell’ultradestra francese che non si riconosce nella nazionale di calcio (perché multietnica e radicata nelle zone del disagio suburbani) ma esalta les Bleus del rugby, sobri e borghesi.

Al di là della corbelleria e della mancata conoscenza delle persone, dei giocatori della Francia rugbistica (presenti e passati, diversi tra loro come Dusatoir e Batareaud, come ‘Ntamack e Danty, figli delle banlieue, delle colonie e delle élite) ancora una volta l’uso strumentale dell’effetto confonde sulla causa.

Il rugby è uno sport borghese? Sì, lo è nella misura e nei luoghi in cui la sua diffusione sul territorio è limitata e la cultura dello sport assente. Ma che non lo si possa giocare tra amici, su un prato e senza strutture è una scemenza, gli anglosassoni lo fanno di continuo (che poi il touch rugby sia divertente è tutta un’altra cosa).

Lo sport dei bianchi francesi contro quello dei neri? Forse sì, ma non per rivendicazione identitaria, piuttosto per mancanza di racconto, per difficoltà di accesso. Che poi in Francia il rugby sia il primo sport è notizia omessa dall’Economist, che lo possano giocare tutti anche. Solo che a volte tra possibilità e volontà c’è il mare della promozione, dell’attività di racconto di uno sport.

In Sudafrica il rugby è diventato terreno di integrazione o almeno di tentativo solido di incontro. Certo in campo a volte ci va chi vuole menare le mani, certo il culto del macho, certo il vigore e la vigoressia, certo la forza anche brutale. Poi però ci sono l’intelligenza tattica, la solidarietà (in campo e fuori), il rispetto, la condivisione, la convivenza. La solidarietà appunto, linea d’acciaio che i rugbisti praticano fuori dal campo, spendendosi per mille cause, prolungando la spinta muscolare nel quotidiano.

Di questo Charlemagne evita accuratamente di parlare. Scegliere capziosamente i valori da commentare è fare puro cherry picking per dimostrare una teoria che richiederebbe molto meno tempo e sforzo.

Il rugby piace ai neofascisti? Sì, anche molto ed è una delle poche cose accettabili di una cultura lugubre. Il rugby inteso come filosofia di vita e bagaglio etico è uno sport fascista ed elitario? Manco per sogno, nemmeno a spingere il tondo nel quadro.

Il rugby è uno sport di tolleranza ed è spietato allo stesso tempo, ma soprattutto è uno sport da campo, incapace di estendere il protagonismo a chi sta fuori. Nel rugby si chiamano spettatori, amici, tifosi. Mai ultras. Che votino o meno è questione neutra per proprietari e giocatori. Questo fa tutta la differenza del mondo, di un mondo facilissimo da giudicare da cerotti, nasi rotti, cicatrici e bicipiti gonfi. Solo che bisogna essere parecchio superficiali per prendere per buoni quei giudizi.

Ho avuto la fortuna di conoscere Siya Kolysi, capitano del Sudafrica campione del mondo e bandiera dei diritti civili. Un uomo di rugby dall’entusiasmo travolgente e dai modi semplici. Vive lo stesso spogliatoio di ragazzi bianchi, di boeri che sono solo la seconda generazione post apartheid, cresciuti lontano da lui e con valori spesso antagonisti.

Ogni partita del Sudafrica è un fenomeno di studio, di integrazione progressiva con tutte le difficoltà che comporta. Gira un video meraviglioso dell’ingresso in campo degli Sharks, squadra professionistica di Durban.

I giocatori entrano in campo cantando Uthuleleni Mawande, una canzone tradizionale nera usata anche come canto identitario di resistenza. Il primo a passare è proprio Kolysi, poi ci sono altre star come Bongi Mbonambi. Cantano solo i giocatori neri, i bianchi passano in silenzio, concentrati, tutti tranne uno. L’ultimo si chiama Werner Kok ed è una leggenda del rugby a 7 sudafricano. Biondo, capelli e postura da surfer, lui canta a occhi chiusi e si gode la bellezza delle rime.

Il rugby è uno sport di piccoli gesti rivoluzionari, il rugby non è scolpito nella roccia delle banalità propagandistiche. Il rugby vive di una parola antica e fraintesa come rispetto. Ecco, rispettarlo significa anche non usarlo per dimostrare teorie grossolane, a volte stanno solo negli occhi di chi guarda.

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