Che mentula dici?L’eccesso di esibito perbenismo del giornalismo puntinista

L’ipocrisia dei quotidiani che riportano le parolacce a metà, con puntini, bip e asterischi, è insopportabile. Un dire senza dire che risulta più sgradevole delle volgarità che si vorrebbero fintamente censurare. Eppure basterebbe tornare ai classici

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«Defi****»: proprio così, con quattro asterischi (chissà perché quattro) a seguire le quattro lettere iniziali, qualche giorno fa un importante quotidiano nazionale ricordava la terribile ingiuria rivolta tempo addietro da un politico a un suo collega, peraltro neppure nominato. Così terribile da non poterla ripetere, da non poterla neppure scrivere. E però da poterla suggerire, a chi è dotato di sufficiente acume per riuscire a completarla. Che cosa avrà mai voluto dire quel volgarone di politico? Ah, saperlo…

Se questo è un caso limite – perché «deficiente» può indubbiamente essere un epiteto offensivo (come lo è sottolineare o anche senza fondamento alcuno attribuire un qualsiasi deficit cognitivo o difetto fisico) ma non è certo una parolaccia -, trovare in un testo asterischi e puntini sospensivi (a volte anche tre x, oppure altre diavolerie), a seguire la lettera iniziale di una parola o interposti tra la lettera iniziale e quella finale, ormai è la norma. Giornali e social abbondano di omissis. E se per esempio nei post su Facebook è (anche) un accorgimento cautelare per non rischiare di essere segnalati e incorrere nella sospensione (eventualità comunque non così automatica ma conseguente al verificarsi di una serie di violazioni), ha senso farvi ricorso sui giornali quando si virgolettano frasi altrui? O addirittura nei messaggi scambiati tra amici?

Ho un amico che dissemina i suoi WhatsApp con questi puntini. Gli ho chiesto perché. «Perché sono educato», mi ha risposto. Ma se sei educato perché hai in mente queste brutte parole, e soprattutto perché, suggerendomele, le fai venire in mente anche a me che sono tanto pudibondo? A meno che tu non voglia lasciare aperta la possibilità che io, pudibondo fino al midollo, proprio non arrivi a cogliere il suggerimento, nel qual caso, però, quei tuoi «c…o» e «c.lo» resterebbero per me un mistero che ostacola la piena comprensione del tuo ponderato messaggio.

Le stesse considerazioni valgono per i puntini sparsi nei giornali. Forse che una parolaccia soltanto adombrata è meno parolaccia? Non c’è forse un tantino di ipocrisia, un eccesso di esibito perbenismo in questo dire senza dire (senza dire quello che tutti dicono), anche più sgradevole della volgarità che fintamente si censura? O forse si intende tutelare un ipotetico venusiano che in certe espressioni non si è mai imbattuto, o magari il cuore innocente degli adolescenti che peraltro i giornali non li leggono proprio, e che comunque questo linguaggio lo praticano come e più degli adulti? Si teme forse, conferendogli il crisma della pagina stampata, di sdoganare la maleducazione e amplificare il cattivo esempio?

Come se il turpiloquio non fosse già sdoganato nei fatti e non si incontrasse ogni giorno, in gradazioni variabili, per strada, sui mezzi pubblici, a scuola, al lavoro, anche in casa, per non dire al cinema. Non in televisione, per la verità, dove all’occorrenza viene coperto da quei molesti «bip» che qualche spirito originale riproduce per iscritto al posto dei pestilenziali puntini, ma dove «puntualmente» ricompare quando sul piccolo schermo passa un film. E nemmeno alla radio pubblica, dove soltanto quarantasette anni fa – era il 25 ottobre 1976, “dies albo” (o “nigro”?) “signanda lapillo” – l’anziano monellaccio Cesare Zavattini osò pronunciare il proibito nome popolare del membro virile, con lo studiato intento di infrangere il tabù; senza però spazzarlo via, come dimostra lo sgomento che da un momento all’altro si dipinse sul volto di Lucia Annunziata, la scorsa primavera, quando nel corso di un animato battibecco televisivo con la ministra Roccella quella parola le scappò di bocca.

Così fan tutti, uomini e donne, di ogni ceto e età. Se certe espressioni paiono troppo sconce, nel riferirle si può sempre sorvolare, oppure si può usare un sinonimo meno crudo, una perifrasi, una parafrasi. Quando, esattamente ottant’anni fa, curava “Il libro di Catullo veronese” (Chiantore, 1943), nelle note al carme XVI, quello che comincia con il trucido proclama “Pedicabo ego vos et inrumabo / Aureli pathice et cinaede Furi”, l’insigne latinista Massimo Lenchantin de Gubernatis non usava i puntini, ma con soave levità e inappuntabile precisione didascalica spiegava “pedicabo = mentulam podici inmittam” e “inrumabo = in rumam vel os mentulam inseram”, mentre “pathicus est qui omnia patitur et ipsam ìnrumationem” e “cinaedus qui posticam venere subit”.

Per chi ancora non avesse capito, c’è la pirotecnica versione di Guido Ceronetti in Catullo, “Le poesie”, Einaudi, 1969: «Nel culo e nella bocca da me lo prenderete / Aurelio boccadacazzi, Furio rottonelculo» (nei libri, niente censure). La traduzione è un po’ (tanto) libera, ma il senso è quello, e va sottolineato che il tenero Catullo davvero non si faceva mancare niente nei molti componimenti scrupolosamente espunti dalle antologie scolastiche, che del resto sorvolano pure sul doppio senso di quel passero delizia di Lesbia, che ci giocava e se lo teneva in grembo e lo sollecitava con la punta del dito.

Ma se in Catullo e nei suoi contemporanei i vocaboli impudichi significano propriamente gli organi e le attitudini sessuali di cui sono il nome popolare, ai nostri giorni entrano nel linguaggio comune prevalentemente in un senso traslato-interiettivo che ne oblitera il riferimento anatomico: per esprimere sorpresa o disappunto («Prendete la responsabilità di fare queste leggi, cazzo!»: la già citata Annunziata su RaiTre, Mezz’ora in più) o per enfatizzare ciò che si sta dicendo (anche da intendersi al posto di «che» o «cosa»: «Che cazzo dici?») o in luogo di «niente» e «nessuno» («Non si capisce un cazzo», «Non è venuto un cazzo di nessuno»). Una funzione a tal punto logorata dall’intensità dell’uso che, per ottenere o rafforzare gli effetti desiderati, si ricorrere a volte, almeno finché non sarà anch’esso logorato, all’equipollente «minchia» (voce di origine siciliana, da un’alterazione antica del latino “mentula” già osservato in Catullo).

Questo genere di linguaggio non è tuttavia un fenomeno degenerativo recente, come gli accorati fautori del puntinismo giornalistico (e dei bip televisivi) forse credono, né caratteristica esclusiva del becerume da trivio. Il “Grande dizionario della lingua italiana” di Salvatore Battaglia (Utet, 1961) è in questo senso istruttivo. Non è necessario andare a compulsare i sonetti dell’Aretino, sarebbe vincere facile: restando al nome volgare del membro virile, ne fa notoriamente ampio uso un nume tutelare delle patrie lettere come Giacomo Leopardi, nella corrispondenza con il fratello Carlo (per esempio, in data 5 febbraio 1823: «Non mi dir più che m’abbia cura, perché son guarito e sano come un pesce in grazia dell’aver fatto a modo mio, cioè non aver usato un cazzo di medicamenti»), ma ulteriori occorrenze si trovano in Niccolò Machiavelli, Giordano Bruno, Giuseppe Giusti.

Lo stesso Leopardi si ripresenta quando, ovviamente in senso figurato, sono chiamati in causa i testicoli («Ridiamo insieme alle spalle di questi coglioni che possiedono l’orbe terracqueo», lettera a Pietro Brighenti, 22 giugno 1821). E anche a questo riguardo il poeta dell’ermo colle si trova in scelta compagnia – tra gli altri, Giordano Bruno, Alessandro Tassoni, Vincenzo Monti, Niccolò Tommaseo.

Lunga e nobile la tradizione letteraria di quella che alcuni cautamente evocano come «emme» (Ho fatto una figura di emme» o anche, con accapponante lepidezza, «di emmenthal») e che invece Iacopone da Todi, Dante Alighieri, Franco Sacchetti, Ludovico Ariosto, Teofilo Folengo, Michelangelo Buonarroti, oltre al solito Leopardi, non si peritano di chiamare «merda». Niente sinonimi o giri di parole, né tantomeno puntini sospensivi, neanche per la parte inferiore posteriore del corpo umano da cui la predetta sostanza viene espulsa, che avrebbe pure una quantità di nomi più eleganti, ma alla quale Boccaccio, Machiavelli, Straparola, Gozzi riservano quello più grossolano, consacrato dal padre Dante nel celeberrimo «ed egli avea del cul fatto trombetta» (Inferno, XXI, 139).

Per non dire dei tanti altri termini e epiteti volgari che sui giornali ci vengono normalmente propinati coi puntini (e però vengono propinati), come «puttana», «troia», «pirla», «picio», «scopare», «trombare», che vantano tutti antichi e illustri trascorsi, o del più recente grido identitario di battaglia proto-grillino, che nella elusiva versione scritta fa precedere i puntini da «vaffan» o li elimina tout-court nell’abbreviazione neologistica «vaffa», e che è stato variamente reso nel corso del Novecento da scrittori come Aldo Palazzeschi, Alberto Moravia, Pier Paolo Pasolini.

Tutte espressioni, beninteso, da usare con moderazione, a voce e per iscritto, e solo quando serve davvero. Le parolacce non sono cose buone. Ma, se proprio si devono usare, tanto vale farlo risolutamente, senza ammantarle di quei mezzucci pelosi da tremebonda zia gozzaniana. Perché quel che ne risulta non sono cose buone, ma solo di pessimo gusto.

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