Donald Trump è stato eletto presidente degli Stati Uniti d’America e a Bruxelles, come a Gerusalemme, Kyjiv, Tokyo e Taipei ci si interroga su quale sarà la politica estera dell’America del secondo Trump, e come si posizionerà la prima superpotenza del pianeta nei confronti delle principali crisi globali.
Come già accaduto durante il primo mandato, la politica estera oscillerà fra una sostanziale continuità, derivata dal sistema di alleanze storiche del Paese (a cominciare dalla Nato), fino alle classiche pulsioni di ogni leader populista: l’ansia di un rapporto diretto fra i leader, non importa se democratici o autoritari; l’idea che un accordo diretto fra “uomini forti” sia sufficiente a risolvere le principali crisi globali e via dicendo.
«Farò finire la guerra in ventiquattro ore» è uno slogan buono forse per rincorrere l’elettorato isolazionista, ma non è una dottrina di difesa e sicurezza, come l’idea ingenua, sviluppata durante il primo mandato, di un rapporto diretto con Kim Jong-un non fu in grado di produrre alcuna riduzione della tensione fra le due Coree.
Esamineremo qui tre aree di crisi per capire quale potrà essere l’orientamento della prossima amministrazione americana: 1. Il rapporto con la Cina, Taiwan, il Mar Cinese Meridionale e l’Indo-Pacifico; 2. Israele, l’Iran e il grande Medio Oriente; 3. La guerra in Europa, l’Ucraina e la Russia.
Cina, Taiwan, il Mar Cinese Meridionale e Indo-Pacifico
Il rapporto fra le due più grandi economie del pianeta continuerà a essere teso e Trump sarà in sostanziale continuità con l’amministrazione Biden. La Cina è uno dei pochi temi che unisce Democratici e Repubblicani al Congresso, e la sfida che il regime sempre più assertivo di Pechino ha lanciato all’occidente dall’ascesa di Xi Jinping in poi continuerà a essere considerata la priorità in politica estera della prossima amministrazione.
E se la prima amministrazione Trump fu connotata dall’imposizione di un sistema crescente di dazi e tariffe su una molteplicità di beni prodotti dalla Cina e dalla campagna contro Huawei, la seconda amministrazione Trump sarà con buone probabilità ancora più assertiva nei confronti di Pechino. Taiwan, il cuore tecnologico del pianeta, non sarà abbandonata e proseguiranno le forniture belliche americane per permettere alla Cina democratica di difendersi in caso di blocco navale o di attacco diretto.
Joe Biden e il suo team Asia, a cominciare da Kurt Campbell, n.2 uscente al Dipartimento di Stato, hanno dedicato gli ultimi quattro anni a costruire una rete di strumenti “minilaterali” che hanno rafforzato la rete delle democrazie asiatiche in funzione di contenimento cinese. L’accordo trilaterale fra Stati Uniti, Corea e Giappone; il rilancio del Quad, con Australia, India e Giappone; l’accordo Aukus con Regno Unito e Australia; il rafforzamento dell’accordo bilaterale con le Filippine; la costruzione di nuove basi militari lungo la cosiddetta “first island chain” fra il Giappone, Okinawa e Luzon in risposta all’occupazione illegale di Pechino nel Mar Cinese Meridionale; l’accordo Nato-IP4 (con Nuova Zelanda, Giappone, Australia e Corea del Sud), non verranno smontati e l’Indo-Pacifico continuerà a essere una priorità della prossima amministrazione.
Israele, Iran e grande Medio Oriente
Il rapporto fra Stati Uniti e Israele continuerà a essere solido e sostanzialmente incrollabile. Non dimentichiamo che in questi mesi, l’amministrazione Biden ha già realizzato un impressionante build-up militare (due gruppi di portaerei e cacciabombardieri) come deterrente nei confronti dell’Iran ed in sostegno alle azioni di Gerusalemme contro i proxy dell’Iran, da Hamas, a Hezbollah e Houthi.
Benjamin Netanyahu si attende però di più da Donald Trump: una sorta di “assegno in bianco”, che con buone probabilità otterrà, per proseguire l’azione bellica a Gaza, nella West Bank e nel Libano meridionale. La cacciata del ministro della Difesa Yoav Gallant a poche ore dalla proclamazione dei risultati è un primo segnale in tal senso.
Poco importa se i motivi della cacciata di Gallant siano condivisi da una solda base bipartisan in Israele: la volontà di estendere ai giovani ultra ortodossi l’obbligo del servizio militare di leva; la disponibilità ad una breve cessate il fuoco per rilanciare il negoziato per rilascio degli ostaggi; avvio di una commissione d’inchiesta sui fallimenti dell’intelligence israeliana lo scorso 7 ottobre.
Nei confronti dell’Iran, la nuova amministrazione adotterà contemporaneamente una linea più dura, abbandonando ogni ipotesi di rilancio del “nuclear deal” e con buone probabilità intensificando ulteriormente il regime sanzionatorio.
La guerra in Europa, l’Ucraina e la Russia
Ma se sul teatro dell’Indo-Pacifico e sul quello Mediorientale non ci dobbiamo attendere dunque grandi stravolgimenti della politica estera statunitense, il vero cambio di passo potrebbe esserci nel Vecchio Continente.
La pretesa trumpiana di poter mettere fine facilmente alla guerra, unita alle diverse dichiarazioni del nuovo vicepresidente J.D.Vance sulla possibile fine dei trasferimenti di armi all’Ucraina; sul congelamento del conflitto sul campo (che aprirebbe la strada alla cessione del venti per cento del territorio ucraino alla Russia); insieme alle garanzie di neutralità dell’Ucraina, possono rappresentare un cambio traumatico delle strategie occidentali, con un impatto devastante sull’andamento del conflitto.
Se a ciò aggiungiamo le molteplici dichiarazioni di Donald Trump sull’inefficacia dell’Alleanza Atlantica e sulla sottolineatura costante della transazionalità delle relazioni fra gli alleati («gli europei pagano poco…»), ci rendiamo conto di come proprio in Europa il cambio di amministrazione potrebbe produrre impatti profondi e persino devastanti.
In gioco non c’è soltanto la solidità dell’alleanza euro-atlantica, ma la fine possibile di un’intera architettura di sicurezza fra i Paesi più democratici e sviluppati del pianeta, costruita sulle macerie del secondo conflitto mondiale.
Un indebolimento della Nato, la riduzione del sostegno politico e militare all’Ucraina, l’interruzione del processo di integrazione euro-atlantica dell’Ucraina stessa, offrirebbe un fianco inaspettato ai nemici del mondo libero, e potrebbe essere esiziale per le aspirazioni euro-atlantiche di Moldova, Georgia e Balcani. L’Asse delle Autocrazie ne uscirebbe così rafforzato e sempre più assertivo.
Ma in attesa di capire meglio le prime azioni della seconda presidenza Trump, spetta ora all’Europa compiere una scelta di maturità, trasformando una possibile crisi all’orizzonte in una opportunità. È tempo per l’Europa di fare davvero l’Europa, accelerando sul processo di integrazione a cominciare dalla non più rinviabile politica estera e di sicurezza comune: esercito e intelligence europea; industria europea della difesa; politica estera comune senza più il vincolo dell’unanimità; accelerazione dell’integrazione euro-atlantica dell’Ucraina; accelerazione dell’ingresso dei Paesi balcanici nell’Unione europea, a cominciare da Albania e Macedonia del Nord; apertura a Georgia e Armenia. In una frase: Trump non è il problema, Harris non sarebbe stata la soluzione. Il futuro dell’Europa è soltanto nelle mani dell’Europa stessa.