Roma. Massimo D’Alema capo dello stato. Massimo D’Alema primo leader politico a diventare presidente della Repubblica. Massimo D’Alema conosciuto internazionalmente per gli interventi italiani in Kosovo e in Albania. Un ex comunista a rappresentare l’unità nazionale in un paese diviso a metà. Un politico in piena attività, non un tecnico o un super partes, in corsa per garantire anche la minoranza dello 0,6 per mille degli italiani che si è schierata con Silvio Berlusconi. Spiegare i nostri delicati meccanismi politici, i triangoli istituzionali, le intese tra le coalizioni, gli accordi tra i partiti e tutto il resto agli osservatori stranieri non è facile e spesso vale ciò che Michael Ledeen risponde ai suoi interlocutori italiani che gli chiedono che cosa pensino a Washington di ciò che tizio o caio ha detto al Corriere della Sera: “In tutta Washington saranno in sei a conoscere questo o quel politico italiano, solo in due avranno letto ciò che ha scritto sul Corriere”. Eppure la parola “D’Alema” genera anche all’estero una reazione.
Quell’eterna figura di “babbo della nazione”
Christopher Caldwell, editorialista del Financial Times, saggista del New York Times Magazine ed esperto di cose europee per il neoconservatore Weekly Standard, dice che all’establishment politico americano non piace il post comunismo dalemiano. Malgrado ciò, l’atteggiamento di Washington sulla presidenza D’Alema non potrà che essere positivo: “Primo perché usiamo ancora oggi, come punto di riferimento, la nostra esperienza dei tempi della Guerra fredda. Sappiamo che D’Alema non è un erede di Honecker, ma di Berlinguer, praticamente di un eroe per la sinistra americana. Secondo, crediamo a ciò che dicono gli analisti italiani quando lo descrivono come un uomo di centrosinistra. Terzo, non è uno di quei leader estremisti di sinistra come Diliberto e neanche del tipo di Lafontaine e Besancenot. Riconosco, però, che D’Alema ha fatto poca resistenza contro questa gente, ma gli americani non seguono la politica europea così da vicino da poter valutare questa sua timidezza. Quarto, Prodi farà dell’Italia un protagonista di politica estera molto meno importante di quanto lo sia stata adesso. Quinto: D’Alema è filoamericano, anche se lo è a corrente alternata. Ma agli americani, tra l’altro, ricorda i bei tempi dell’Amministrazione Clinton”. Caldwell non ama “la sua mancanza di immaginazione, la sua tendenza a ripetere opinioni da bar sulle questioni mediorientali e trova l’opposizione dalemiana alla guerra in Iraq illogica per un leader che ha guidato l’Italia nella guerra in Kosovo”. Anzi, per l’editorialista americano, D’Alema “come statista, come autore e come teorico del bombardamento umanitario è stato uno dei tre leader mondiali, con Tony Blair e Madeleine Albright, ad aver delineato le ragioni intellettuali per l’invasione dell’Iraq”.
Alexander Smoltczyk, corrispondente del settimanale tedesco Spiegel, liquida il capitolo “ex comunista” ricordando che in Germania c’è “una Kanzlerin cresciuta nell’ideologia della Ddr”. Semmai, spiega il giornalista tedesco, per la Germania sarebbe più problematico un capo di stato cresciuto nell’Msi: “L’idea di D’Alema al Quirinale dunque è geniale. L’Italia finalmente abbandonerà quell’eterna figura di ‘babbo della nazione’ che è diventato il capo dello stato. Tra l’altro ne avete già uno, il Papa. Ben venga, dunque, una figura più giovane, più politica, più scomoda. Avete disperatamente bisogno di una figura scomoda e D’Alema promette di esserlo molto più degli altri candidati, come Giuliano Amato. Avete bisogno di qualcuno che sia intelligente, dotato di grande capacità retorica e capace di sollecitare e stimolare una modernizzazione del paese, soprattutto visto che al governo non c’è un trascinatore di folle”. Secondo l’osservatore tedesco, con Prodi e con un altro come lui al Quirinale “sarebbero anni grigi”.
Il saggista liberal Paul Berman è entusiasta di “un ex comunista che ha riconosciuto come il vero ideale della sinistra sia una coerente e ampia democrazia, non il comunismo né il populismo autoritario”. Per Berman, “D’Alema è un uomo di sinistra che durante gli anni 90 ha riconosciuto che la missione Nato per conto di un popolo oppresso fosse la cosa giusta da fare. D’Alema è un uomo moderno, un uomo d’azione. Abbiamo bisogno di un nuovo tipo di sinistra, in America come ovunque. Perché mai D’Alema non dovrebbe aiutare a generare questa nuova sinistra? Il momento è proprio questo”. A Michael Ledeen, analista dell’American Enterprise, D’Alema piace moltissimo, “ha talento e capacità”. A Washington, dice, l’unica perplessità potrebbe essere proprio quella che qui al Foglio è considerata la ragione principale per la sua candidatura: “E’ un politico al 100 per cento, sicché se continuasse a comportarsi da uomo politico anche al Quirinale, anziché da uomo di stato, complicherebbe la vita ai diplomatici americani, abituati a trattare con Palazzo Chigi e magari andare al Quirinale soltanto per i pranzi ufficiali o per ammirare i quadri”.
Michael Barone, curatore dell’Almanacco della politica statunitense, trova “affascinante” che “il centrosinistra consideri D’Alema un candidato accettabile per la presidenza” e ravvede un “doppio standard” nel trattamento riservato ad An e ai Ds: “An è ritenuta più responsabile del suo passato totalitario, che è molto lontano dal nostro presente, di quando non siano i Ds, che erano, almeno nominalmente, ancora a favore dell’Unione sovietica negli anni 80”. Il conservatore tradizionale Edward Luttwak, analista del Csis, crede che negli Stati Uniti l’ipotesi sarebbe molto apprezzata: “Premetto che la vicenda D’Alema conferma la mia idea che voi fate politica principalmente per divertirvi. Detto questo, qui a Washington ricordiamo D’Alema come l’unico premier italiano che ha combattuto da alleato al fianco degli Stati Uniti. Fin dall’inizio, senza cambiare idea e senza distinguo. Ci ricordiamo che è stato leale, fedele, serio e che non ha ceduto di un millimetro nonostante nel suo partito ci fosse una componente pacifista. D’Alema non ha mollato, la sinistra ha addirittura subito una scissione per sostenere quell’intervento. Questo ci ricordiamo, così come il fatto che all’inizio ci fosse molta diffidenza nei suoi confronti. Allora pensavamo che il nostro uomo fosse Lamberto Dini. E’ successo il contrario. Dini si è dissociato e ha tradito la sua maggioranza e il suo governo. D’Alema ha condotto con successo l’azione e il suo sottosegretario Marco Minniti si è dimostrato tenace. Washington si ricorda questo: un uomo affidabile che mantiene le promesse e che accetta le responsabilità ben testate da 11 settimane incessanti di bombardamenti. D’Alema ha passato il test più pesante che ci potesse essere, quello della guerra”. Dice Luttwak che l’unico rammarico è quello degli scarsi poteri a disposizione del presidente della Repubblica che “la poco coraggiosa presidenza Ciampi non è riuscita ad ampliare”.
Negativo il giudizio dell’editorialista del Figaro, Alexandre Adler: “Massimo D’Alema al Quirinale è la scelta più brutta che si possa fare. Sottolineo: non si tratta del suo talento, è una persona colta, intelligente, anzi è il migliore, insieme con Fassino, della tradizione comunista togliattiana. Io ho massima stima e comprensione per lui, ma è giovane, ha voglia di emergere ed è il principale esponente del maggiore partito della sinistra. La tradizione italiana vuole per quel ruolo una persona matura, a fine carriera come Pertini o di garanzia come Saragat. D’Alema non dà le stesse garanzie che ha dato Ciampi”. Secondo Adler, con D’Alema al Quirinale si allontanerebbe il necessario “momento di ricomposizione” di cui necessita l’Italia: “D’Alema va nella direzione opposta, quella dello scontro. Altra cosa sarebbe se si scegliesse Amato o una personalità di alta levatura come Rita Levi Montalcini, personalità di sinistra che non provocherebbero reazioni negative nel paese”.
La columnist di sinistra del quotidiano Guardian, Polly Toynbee, premette che da inglese, “non avendo un presidente della Repubblica”, forse non è la persona più adatta a commentare, ma la sua osservazione antimonarchica ha a che fare con la scelta di eleggere un politico vero e pieno per il Quirinale: “Mi piacerebbe molto che anche nel nostro paese a rappresentare lo stato ci fosse una figura che si è particolarmente distinta per i suoi meriti, anziché un fantoccio scelto per diritto di nascita, ma al momento non è così. A me sembra che D’Alema sia un’ottima scelta come politico, riconosciuto a livello internazionale. Soprattutto se lo sfidante è uno come Gianni Letta. D’Alema è uno statista, l’altro un pupazzo di Berlusconi. Forse, però, visto il risultato delle elezioni, con un paese così spaccato sarebbe ancora meglio una figura più super partes. A quel punto la scelta di Amato sarebbe perfetta”.
“E’ un fixer, un abile negoziatore”
Heinz-Joachim Fischer, corrispondente della Frankfurter Allgemeine in Italia, è più scettico: “In Germania l’elezione di D’Alema a capo dello stato incontrerebbe qualche perplessità. Non solo e non tanto per il suo passato di ex comunista, ma perché è di fatto un uomo della sinistra. Insomma, rispetto all’attuale presidente Ciampi, sulla cui nomina erano d’accordo tutti i partiti politici, non rappresenterebbe tutti i cittadini italiani”. Il professore inglese Geoff Andrews, autore del libro dal titolo “Not a normal country” che ricorda, ma al contrario, il titolo del saggio dalemiano “Un paese normale”, dice che “l’elezione di D’Alema rappresenterebbe una specie di salto indietro nel vecchio modo di fare politica”. Forse nei momenti cruciali non riuscirebbe ad andare al di là degli interessi di partito, “ma è anche il politico che più di altri potrebbe cercare un’unità con la destra. Nel Regno Unito, D’Alema è quello che chiamiano un ‘fixer’, un abile negoziatore capace di manovrare molto bene dietro le quinte. D’altronde è stato lui che ha cercato di trovare un compromesso con Berlusconi ai tempi della Bicamerale”.