Alla fine di gennaio, poco prima di lasciare la presidenza della Federal Reserve, Alan Greenspan – uno degli uomini più ascoltati e saggi d’America – ha detto che la frattura ideologica che oggi divide in modo irreparabile i conservatori del partito repubblicano dai liberal del partito democratico crea un ampio e allettante spazio al centro dello schieramento politico americano per un eventuale candidato indipendente alle elezioni presidenziali del 2008, o magari del 2012, purché questi abbia le capacità finanziarie e organizzative necessarie a una così dispendiosa sfida nazionale.
La tradizione del terzo partito non è una novità, anzi è ben radicata nella storia politica americana. Senza andare molto lontano, all’inizio del secolo scorso in lizza con i due big c’è sempre stato il partito socialista di Eugene Debs, ma l’anno chiave per il terzo partito è il 1912. In quell’occasione, l’ex presidente Theodore Roosevelt non ha ottenuto la nomination alla convention del partito repubblicano, sicché ha rotto con i conservatori e con il suo amico William Taft, presidente uscente, e ha fondato il partito progressista. Alle elezioni, Roosevelt ha battuto Taft sia nel numero di voti popolari sia in quello dei grandi elettori (88 a 8), ma la divisione all’interno del partito repubblicano ha consegnato la vittoria al democratico Woodrow Wilson.
Nel 1948 la scissione è avvenuta nel centrosinistra. Il democratico segregazionista Strom Thurmond, leader dei Dixiecrats, si è candidato fuori dal partito. La stessa cosa ha fatto il filo-comunista Henry Wallace, ex vicepresidente di Franklin Delano Roosevelt, quando nel partito democratico è uscito sconfitto dallo scontro con Harry Truman. Thurmond e Wallace hanno preso il 2,4 per cento a testa alle elezioni, troppo poco per riuscire a impedire la vittoria di Truman sul repubblicano Thomas Dewey nella tornata elettorale famosa per il titolo del Chicago Daily Tribune con cui erroneamente è stata annunciata la sconfitta di Truman e la vittoria di Dewey. Nel 1968 un altro democratico del sud, l’ex governatore dell’Alabama George Wallace, anche lui favorevole al mantenimento della segregazione razziale, ha ottenuto quasi 10 milioni di voti, il 13,5 per cento e 46 grandi elettori, spalancando le porte della Casa Bianca a Richard Nixon che ha battuto il democratico Hubert Humphrey con uno scarto inferiore a 500 mila voti.
Nel 1980, l’anno di Ronald Reagan, l’indipendente John Anderson ha convinto quasi sei milioni di americani (6,6 per cento). Più di recente c’è stato il clamoroso caso di Ross Perot, il miliardario populista texano e del suo Reform Party. Nel 1992, Perot ha ottenuto quasi venti milioni di voti, cioè il 19 per cento dell’elettorato, regalando la vittoria al democratico Bill Clinton (43 per cento), sottraendola al presidente in carica George Bush senior (37 per cento). Ross Perot è stato meno decisivo quattro anni dopo, ma il suo risultato è rimasto comunque ragguardevole: otto milioni di voti e 8,4 per cento. Nel 2000 c’è stato l’ultimo caso di un terzo candidato, anche se di disturbo: Ralph Nader dei Verdi. Al Gore ha perso la Florida e la Casa Bianca per soli 537 voti. Nader in quello stato ha ottenuto 97.421 voti.
Ma se questa è la storia dei terzi candidati, oggi c’è l’attualità a confermare la disaffezione americana per i due partiti tradizionali. Un terzo degli elettori si definisce democratico, un altro terzo dice di essere repubblicano, ma l’ultimo terzo non accetta nessuna delle due etichette. Non solo. Il gruppo elettorale che cresce di più è quello degli indipendenti e di chi si è registrato a un partito diverso dai due tradizionali. Alle elezioni del 2004 questo blocco costituiva il 22 per cento dell’elettorato. I sondaggi confermano ancora oggi la tendenza: il basso gradimento degli americani per il lavoro svolto dal Congresso di Washington in questi anni non colpisce soltanto il partito di maggioranza, cioè quello repubblicano, ma anche l’opposizione dei democratici, giudicata insufficiente, incapace e inadeguata. Il saggio più completo su questo tema, “Third Parties in America” di Steven J. Rosenstone, Roy L. Behr ed Edward H. Lazarus, spiega come l’allontanamento dai partiti tradizionali sia ormai un dato di fatto costante e permanente.
La previsione di Alan Greenspan non è azzardata, anche perché trova ulteriore conferma nelle strategie politiche e nelle mosse elettorali dei tre principali contendenti alle elezioni presidenziali del 2008: i repubblicani John McCain e Rudolph Giuliani e la democratica Hillary Clinton. Non c’è sondaggio nazionale che non li veda ai primi tre posti nel gradimento degli americani, eppure nessuno dei tre ha vita facile all’interno del proprio partito. McCain è considerato troppo indipendente, un “maverick”, come si dice nel gergo politico di Washington, incapace di scaldare il cuore della base evangelica del partito e tantomeno dell’oliata macchina da guerra dei furbetti di K-street. Giuliani, invece, è un repubblicano della East Coast, un cosmopolita di New York pro-choice sull’aborto e favorevole ai diritti delle coppie gay, quindi non proprio l’alfiere di quei valori tradizionali che costituiscono l’ossatura della maggioranza repubblicana.
Stessa sorte per l’ex first lady. Malgrado il suo passato di paladina delle cause liberal, Hillary Clinton è odiata dall’ala di sinistra del partito democratico per le sue posizioni sull’Iraq, sull’Iran e sulla guerra al terrorismo, giudicate non molto dissimili da quelle dell’Amministrazione Bush. La peace mom Cindy Sheehan ripete spesso che per lei Hillary e Bush pari sono. L’attrice e militante di sinistra Susan Sarandon, che a breve interpreterà la mamma pacifista sullo schermo, non nasconde il suo disprezzo per Hillary, un sentimento condiviso, tra l’altro, dai rumorosi e sempre più influenti bloggers di sinistra. Hillary non è andata al raduno del popolo antagonista di Internet che si è tenuto a Las Vegas due settimane fa, al contrario dei suoi più diretti competitor, e quando pochi giorni fa ha partecipato a una riunione dell’ala liberal del partito è stata fischiata a lungo e il suo discorso è stato più volte interrotto.
In un certo senso anche Bush è un repubblicano fuori sincrono rispetto all’establishment del Grand Old Party, a causa dell’interventismo in politica estera, dell’idea di rafforzare il peso dello stato per perseguire politiche conservatrici, dell’aumento della spesa pubblica e della politica pro-immigrazione più vicina a quella liberal che al sentimento della base repubblicana.
Oggi è difficile immaginare un futuro fuori dai loro partiti per il trio McCain-Giuliani-Hillary, ma la loro strategia per ottenere la candidatura è più da indipendenti che da fedeli partigiani. McCain è l’unico dei tre che se non riuscisse a ottenere la nomination dal partito potrebbe candidarsi alla Casa Bianca come indipendente, proprio perché è amatissimo anche tra i liberal, i quali gli riconoscono indipendenza di giudizio e spirito libero. Le ultime mosse di McCain in realtà sono di segno contrario. Il senatore dell’Arizona, infatti, sta cercando di accreditarsi con la base evangelica del partito repubblicano con cui alle primarie del 2000 ebbe uno scontro violento, anche a causa dello zampino di Karl Rove. Il mese scorso, McCain ha tenuto un solenne discorso alla Liberty University del suo antico nemico, il reverendo Jerry Falwell. La decisione ha fatto storcere il naso a parecchi sostenitori dell’indipendenza di McCain, ma il senatore li ha spiazzati pronunciando lo stesso identico discorso anche in un tempio liberal come la New York University, ancora una volta per dimostrare che la destra religiosa e la sinistra radical non possono certo far cambiare idea o atteggiamento a uno spirito libero e indipendente.
Bisognerà aspettare le primarie di inizio 2008 per capire se emergerà un terzo candidato presidenziale capace di poter concorrere alla pari con i due principali partiti. Già ad agosto, però, potrebbe nascere la clamorosa candidatura al Senato da indipendente di Joe Lieberman, senatore per tre legislature, ex governatore del Connecticut, l’uomo che per i famosi 537 voti della Florida nel 2000 non è diventato vicepresidente degli Stati Uniti e che due anni fa si è candidato alle primarie presidenziali per i democratici. Lieberman è uno dei più autorevoli senatori di Washington e, probabilmente, l’uomo più popolare del suo stato, ma sulla guerra al terrorismo e sull’Iraq è ancora più falco di George Bush al punto che molti scommettevano potesse sostituire Donald Rumsfeld al Pentagono. Nel partito democratico, Lieberman è mal visto, proprio per questo. Così s’è fatto avanti uno sfidante pacifista alle primarie democratiche dell’8 agosto. In quell’occasione voteranno soltanto i militanti democratici ed è probabile che questo Ned Lamont riesca a vincere la gara interna al partito per ottenere la candidatura al Senato. Se dovesse vincere lo sfidante, con 7.500 firme Lieberman avrà la possibilità di presentare la sua candidatura come indipendente. Il senatore è convinto di poter battere lo sfidante interno, ma ha detto di voler comunque presentare la sua candidatura “davanti all’intera popolazione del Connecticut”.
La grande speranza per l’emersione di un eventuale terzo partito è Mike Bloomberg, il sindaco miliardario e repubblicano di New York con un passato di elettore democratico e con un possibile futuro da candidato indipendente alla Casa Bianca. Il New York Sun lo sponsorizza apertamente, altri giornali della città come l’Observer e il New York Magazine hanno preso la palla al balzo. A febbraio l’Observer ha titolato la sua prima pagina così: “Mike si candiderà presidente, presentandosi come un Perot sano di mente?”. Il settimanale New York ha rilanciato l’idea con una lunga inchiesta in cui il consigliere politico del sindaco dice di essere un sostenitore convinto della possibilità che Bloomberg possa candidarsi alla presidenza. Il magnate televisivo non nega l’ipotesi e vola a Washington troppo spesso per non destare sospetti.
Bloomberg è il prototipo del politico capace di poter ascoltare le ragioni di entrambi gli schieramenti, una cosa che piace moltissimo in un paese che è fortemente polarizzato ma dove capita sempre più spesso di vedere città o stati tipicamente di sinistra votare sindaci o governatori di destra (come a New York e in Massachusetts) o viceversa. A novembre, in Virginia i democratici hanno deciso di contrapporre James Webb al senatore uscente George Allen, già lanciato per le presidenziali del 2008. Webb è un ex repubblicano che negli anni Ottanta è stato addirittura ministro della Marina militare con Ronald Reagan. Sei anni fa sostenne la candidatura di Allen, ora si candida con i democratici. In un collegio della Pennsylvania, i democratici candidano Chris Carney, un esperto di antiterrorismo che tra il 2002 e il 2004 ha lavorato nell’Amministrazione Bush accanto a Douglas Feith e Stephen Hadley, due dei principali architetti dell’invasione irachena. I repubblicani tentano un colpo grosso e un’invasione di campo in Maryland – stato solidamente democratico e con una grande comunità nera – con un popolarissimo candidato al Senato di origine afroamericana. A novembre Michael Steele potrebbe diventare il peggior incubo per il futuro del partito democratico, qualora vincesse.
Secondo David Brooks, editorialista neoconservatore del New York Times, se oggi la politica americana ripartisse da zero, la grande divisione non sarebbe più tra liberalismo di sinistra e conservatorismo di destra, ormai parole incapaci di garantire una filosofia politica coerente. La nuova divisione è tra nazionalismo populista e globalismo progressista. I nazionalisti populisti sono di sinistra sulle questioni economiche, conservatori sui valori, realisti in politica estera e riuscirebbero a mettere insieme personaggi che oggi militano a fatica dentro i rispettivi partiti tradizionali. I globalisti progressisti, invece, sono liberisti in economia, di sinistra sui valori e interventisti democratici in politica estera, cioè un partito che potrebbe avere John McCain o Hillary Clinton come leader.
Stiamo assistendo alla fine delle ideologie, chiosa l’Economist citando lo storico saggio di Daniel Bell “The end of ideology”, che però è degli anni Cinquanta e non si può dire che ci abbia preso. Resta il fatto, nota il settimanale inglese, che McCain e Hillary oggi sembrano non avere alcuna remora a rompere gli schemi ideologici dei propri partiti. Sull’Iraq McCain è più falco di Bush, malgrado la politica del “regime change” non abbia mai entusiasmato il Grand Old Party. Su tutto il resto, dalle tasse alle norme etiche sulle campagne elettorali, è più a sinistra anche dei moderati del suo partito. La stessa cosa si può dire di Rudolph Giuliani. Hillary si è differenziata dalla linea ufficiale del partito democratico non solo sull’Iraq, ma anche sull’aborto che ha definito “una scelta triste e tragica” e che vorrebbe “sicuro, legale e raro”, come diceva suo marito Bill. Anche sulla riforma sanitaria – in coppia con l’antica nemesi di suo marito, Newt Gingrich – o sulla salvaguardia dei minori per l’eccessiva dose di violenza e di sesso nei film e nei videogiochi – con l’ideologo cattolico Rick Santorum – Hillary ha rotto gli argini del suo partito.
Il New York Magazine ha invitato i delusi dai democratici e i disgustati dai repubblicani a costituire un nuovo partito, il Purple Party. Thomas Friedman del New York Times ha lanciato l’idea di un nuovo terzo partito chiamato Geo-Green, con un programma attento alla geopolitica e alle tematiche ambientali ed energetiche: “Anche se il geo-greenismo non riuscisse ad attirare un numero di voti sufficienti a vincere un’elezione, potrebbe attirarne comunque abbastanza per terrorizzare sia i democratici sia i repubblicani e costringerli a fare finalmente la cosa giusta”.
21 Giugno 2006