Così come il calcio è quel gioco semplice semplice in cui ventidue uomini rincorrono per novanta minuti un pallone e alla fine vincono i tedeschi, le guerre culturali sono quello stratagemma usato dagli spin doctor repubblicani per avviare un acceso dibattito politico a pochi mesi dalle elezioni e poi consegnare la vittoria ai conservatori americani, anche quando un loro successo sembra improbabile. Ormai è una regola fissa, ma i liberal ci cascano sempre. Ogni volta che si apre un ciclo elettorale nazionale, cioè ogni due anni, gli strateghi del Grand Old Party gettano benzina sul fuoco delle questioni che in Italia chiamiamo “eticamente sensibili” per mobilitare, galvanizzare e convincere il popolo della Right Nation ad andare a votare il primo martedì di novembre. I democratici tentano sempre la strategia opposta, provano a mostrarsi centristi per conquistare gli indipendenti e la fetta di elettorato repubblicano più moderata, ma non ci riescono quasi mai. I motivi sono più d’uno. L’America di questi anni è fortemente polarizzata, difficilmente gli elettori che si definiscono di destra o di sinistra sono poi disposti a cambiare schieramento. Karl Rove, lo stratega delle vittorie bushiane, ha calcolato che nel 2004 la fetta di americani in bilico tra i due partiti era ristretta al 7 per cento. In ogni caso i democratici che provano a presentarsi con la faccia moderata spesso non risultano credibili o finiscono per perdere consensi tra i più radicali della propria base. Il risultato è sempre lo stesso: i conservatori portano più gente alle urne – non soltanto perché sono numericamente più dei liberal – e i democratici perdono le elezioni senza mai capire come diavolo sia potuto accadere anche questa volta.
Nel 2004, cioè nell’anno della rielezione di George W. Bush, la Casa Bianca ha spostato l’attenzione dalla guerra al terrorismo – su cui già aveva capitalizzato tutto ciò che poteva capitalizzare – sui tre temi etici capaci di coinvolgere la più organizzata e affidabile delle basi elettorali conservatrici, quella degli americani che credono in Dio e frequentano le chiese. In quell’occasione, e in pochi mesi, Bush ha fatto approvare dal Congresso la legge che ha reso illegale l’aborto tardivo, noto anche come “nascita parziale” perché praticato nelle ultimissime settimane di gravidanza con la tecnica dell’aspirazione del cervello attraverso un foro nel cranio del bimbo, curandosi che il feto non sia completamente partorito per non commettere un omicidio. La seconda mossa è stata vietare il finanziamento federale – ma non quello pubblico, tantomeno quello privato – per la ricerca scientifica sugli embrioni. Poi ha sponsorizzato un emendamento per inserire nella Costituzione la legge bipartisan del 1996 in difesa del matrimonio eterosessuale firmata allora da Bill Clinton, ma in seguito molto spesso aggirata dalle corti locali. Scelte, tutto sommato, moderate e di buon senso (l’aborto tardivo, per esempio, è proibito dalla legge italiana), ma i democratici sono caduti ancora una volta nella trappola di autodipingersi come il partito che non si cura di difendere la vita. “The Party of Death: The Democrats, the Media, the Courts, and the Disregard for Human Life” è il titolo di un ruvido libro di un trentunenne saggista conservatore, Ramesh Ponnuru, in cui si criticano le politiche liberal sui temi etici perché considerate contrarie alla cultura della vita. La tesi è esagerata e, per questo, anche molto contestata da alcuni opinionisti conservatori, ma i politici e gli editorialisti liberal non hanno smesso un attimo di denunciare il pericolo incipiente di una crociata religiosa della Casa Bianca che in realtà non c’è mai stata. Costoro non si sono resi conto dell’effetto micidiale di questa tesi, specie se accompagnata da una sottovalutazione della vera minaccia religiosa che l’America sta affrontando, quella fondamentalista islamica.
Bush così è riuscito a mobilitare i suoi, a mettere in difficoltà gli avversari – in crisi d’identità tra l’ala centrista e quella radicale – e a convincere gli americani che comunque vada i repubblicani restano il partito dei valori tradizionali, mentre i democratici sono una setta di intellettuali debosciati che segue una sua propria religione laicista. Questo è il tema di un altro libro abrasivo, “Godless – The Church of Liberalism”, appena scritto da Ann Coulter e subito schizzato al primo posto dei bestseller di Amazon.
Per le elezioni di metà mandato del 7 novembre 2006, il piano dei repubblicani è il medesimo del 2004: mostrarsi come il partito che sa difendere gli americani e poi marcare le differenze con i democratici sui valori e sulla cultura della vita. I temi sono due: l’aborto e il matrimonio gay. Rispetto a due anni fa, Bush può far valere uno dei suoi pochi successi di questa prima parte del secondo mandato: la nomina di due giudici supremi, il presidente John Roberts e Samuel Alito, entrambi apprezzati nel paese per la filosofia giuridica di cui sono alfieri e, grazie all’età, per la possibilità di influenzare a lungo e in senso conservatore lo spirito della Corte.
La settimana scorsa i repubblicani hanno riportato in aula l’emendamento costituzionale contrario al matrimonio gay, in teoria ottenendo una sonora sconfitta. In realtà hanno incassato un’altra vittoria. L’emendamento, come nel 2004, non è passato ma si sapeva già che non sarebbe passato, visto che per l’approvazione di una modifica della Costituzione sono necessari i due terzi dei voti del Senato che i repubblicani non hanno. E anche se l’emendamento fosse stato approvato, prima di essere inserito nella Costituzione federale avrebbe comunque dovuto ottenere la ratifica dei tre quarti dei 50 stati membri. Un’ipotesi difficilmente prevedibile. Eppure, malgrado l’esito negativo dell’iniziativa fosse così scontato, i repubblicani hanno presentato l’emendamento, ben consapevoli che costringere i democratici a votare “no” li avrebbe avvantaggiati alle elezioni di novembre.
L’errore dei democratici, di nuovo, è stato quello di accusare di fondamentalismo religioso un’iniziativa che tale non era. Bush non ha sostenuto con toni da crociata la modifica costituzionale per vietare le nozze gay, piuttosto con argomenti laici. Ha ribadito il principio secondo cui il matrimonio è l’istituto fondamentale della nostra civiltà e il cardine della nostra società. Le famiglie – ha detto Bush – hanno il compito di trasmettere i valori e di formare i caratteri, per cui chi governa ha l’obbligo di elaborare politiche volte a rafforzare questa istituzione, non a indebolirla.
In una società democratica – è questo il ragionamento di Bush – le decisioni sugli aspetti fondamentali della società spettano al popolo e il popolo in modo inequivocabile ha ribadito che il matrimonio è l’unione tra un uomo e una donna. Nel 1996 così ha deciso il Congresso in modo bipartisan e poi con la firma di Bill Clinton. Da allora 19 stati su 50 hanno tenuto referendum, approvati con una media favorevole del 71 per cento, per cambiare le costituzioni statali e difendere la definizione tradizionale di matrimonio. Oggi sono 45 gli stati che hanno una costituzione o una legge locale che definisce il matrimonio come l’unione di un uomo e una donna. Il consenso, dunque, è ampio. Eppure negli ultimi due anni ci sono stati giudici militanti, o pubblici ufficiali come il sindaco di San Francisco, che hanno provato in tutti i modi ad aggirare la volontà popolare con decisioni legittime ma non democratiche.
L’emendamento costituzionale ha avuto lo scopo di proteggere la definizione tradizionale di matrimonio, lasciando le assemblee statali libere di fare qualsiasi scelta sulle unioni e sulle coppie di fatto, ma in realtà è servito ancora una volta a far schierare i democratici contro la volontà consolidata della maggioranza degli americani. Anche John McCain, il principale candidato repubblicano alle presidenziali del 2008, ha votato contro l’emendamento costituzionale, ma nei confronti di un senatore conservatore nessuno avanza il sospetto che voglia indebolire il concetto di famiglia tradizionale, anche perché l’opposizione di McCain è di tipo federalista: crede cioè che questa sia materia da lasciar regolare alla potestà degli stati.
Sull’aborto la questione è molto simile, contrariamente a quanto si pensa. La colpa è di Roe, anzi di Roe contro Wade, la sentenza della Corte suprema che nel 1973, con una risicata maggioranza di cinque giudici contro quattro, ha ampliato il diritto alla privacy della Costituzione americana fino a comprendervi il diritto alla scelta di continuare o interrompere una gravidanza.
Nel resto del mondo non è così. Quasi tutti gli stati occidentali hanno risolto la questione a favore della legalizzazione dell’aborto in due modi: con una legge o con un referendum, coinvolgendo dunque il popolo sovrano nella decisione. Una volta compiuta democraticamente la scelta, spesso arrivata dopo lunghi, leali e serrati dibattiti, gli antiabortisti hanno accettato la sconfitta e la possibilità di interrompere una gravidanza è diventata quasi un diritto acquisito. I pro-lifers americani, invece, avvertono come un sopruso antidemocratico l’assoluta libertà di abortire decisa da cinque giudici contro le scelte compiute dal popolo con un referendum o nei parlamenti. Da qui la virulenza della guerra culturale che si combatte in America, con gli eccessi da una parte e dall’altra.
Negli Stati Uniti non c’è nessuna legge nazionale sull’aborto. Dal giorno della sentenza del 1973 c’è la piena, totale e assoluta libertà di abortire come e quando si vuole, ferme restando le forme e i modi previsti dai singoli stati. La possibilità di abortire nelle ultimissime settimane di gravidanza è stata vietata soltanto due anni fa, ma i suoi oppositori sono ricorsi alla Corte suprema perché convinti che questo divieto sia in contrasto con Roe. L’Economist, che è il giornale più attento alle vicende etiche americane, ricorda come molti liberal considerino l’aborto un diritto, alla pari del diritto di voto conquistato dai neri negli anni Sessanta, piuttosto che uno strumento per evitare la sua pratica clandestina. Il paradosso è che politicamente ai liberal converrebbe che la Corte suprema annullasse la sentenza Roe contro Wade. L’esito non sarebbe la proibizione dell’aborto, ma la restituzione della competenza a legiferare alle assemblee dei singoli stati. Un’inchiesta apparsa sul numero di giugno del mensile The Atlantic, titolata “Life after Roe”, rivela che soltanto una piccola minoranza vorrebbe l’aborto sempre legale o sempre illegale (entrambi non superano il 20 per cento). In tutti i sondaggi Gallup dal 1973 a oggi risulta invece che il 60 per cento degli americani è favorevole a consentire l’aborto nei primi mesi di gravidanza (come prevede la legge 194 in Italia). Negli Stati Uniti non è possibile convocare un referendum federale per far emergere questa maggioranza, quindi la scelta spetta agli stati oppure al Congresso. Se la sentenza Roe fosse cancellata, il giorno successivo tornerebbero in auge in 11 stati le leggi antiabortiste in vigore prima del 1973. In almeno 7 di questi (Arkansas, Louisiana, Michigan, Oklahoma, South Dakota, Texas e Wisconsin) l’aborto potrebbe diventare fuorilegge senza eccezioni per la salute della donna. In almeno 23 stati, invece, il diritto della donna ad abortire non sarebbe intaccato per nulla: in sei di questi stati esistono già leggi che permettono di abortire durante tutto il periodo della gravidanza; in 10 stati ci sono sentenze delle corti locali; nei rimanenti 7 l’opinione pubblica è fortemente pro-choice. In sintesi il giorno dopo la cassazione di Roe, in una dozzina di stati l’aborto sarebbe vietato, mentre in un numero doppio di stati americani resterebbe tutto come prima. Ma anche negli stati conservatori, la maggioranza è da 25 anni costantemente favorevole a legalizzare l’aborto nei primi tre mesi di gravidanza, per cui è più che probabile che in due o tre anni anche lì si arriverebbe a una legalizzazione dell’aborto anche nei casi di stupro e se la salute della donna fosse a rischio.
C’è la possibilità che in un’ipotetica America senza Roe possa essere il Congresso a occuparsi della questione. L’attuale Senato guidato dai repubblicani non avrebbe i numeri per approvare un divieto totale e se il Grand Old Party adottasse una piattaforma così distante dall’opinione comune degli americani rischierebbe di fare l’errore opposto a quello che fanno oggi i democratici sui temi etici. Col rischio concreto di perdere il controllo del Congresso e di uscire dalla Casa Bianca. In assenza di Roe, l’ipotesi più probabile è che Capitol Hill adotti una legge moderata, simile a quella italiana. Non sarà una passeggiata, ma otterrà il risultato di porre fine a una delle più cruente guerre culturali degli ultimi trent’anni.
Resta da capire se l’annullamento della sentenza Roe sia soltanto un’ipotesi campata in aria oppure un’eventualità concreta. Con le due nomine di Roberts e Alito, Bush probabilmente ha riportato a quattro il numero dei giudici supremi contrari a Roe (negli ultimi anni era sceso a 3). Antonin Scalia e Clarence Thomas c’erano già, il probabile voto di Samuel Alito andrebbe a sostituire quello del deceduto William Rehnquist, mentre non è ancora chiaro l’orientamento del presidente (cattolico) John Roberts. Mancherebbe comunque il quinto voto, che però potrebbe arrivare presto grazie alle probabili dimissioni (a luglio?) dell’ottantaseienne John Paul Stevens. Come ha dimostrato con Alito e Roberts, Bush al Senato ha i numeri per nominare subito un altro giudice. Se ci riuscisse, per la prima volta la maggioranza della Corte potrebbe essere diversa da quella del 1973, giusto in tempo per esaminare il ricorso contro il divieto di aborto tardivo, abrogare nel luglio 2007 la Roe e imprimere al paese una svolta epocale che, in fondo, non cambierebbe nulla se non la fine delle guerre culturali americane.
16 Giugno 2006