Camillo di Christian RoccaMezzo mandato di fuoco (Passeggiate americane – 5)

Per vincere le elezioni di metà mandato i democratici hanno in mente un piano articolato su sei punti. Si intitola “A new direction for America” ed è stato preparato da un deputato che si chiama Rahm Emmanuel e che è il coordinatore della campagna elettorale di novembre. Il testo non ha contenuti tonitruanti come quel “Contract with America” con cui nel 1994 i repubblicani hanno conquistato una sbalorditiva maggioranza al Congresso, ma l’ambizione dei Dems è proprio quella. Il 7 novembre si eleggerà un terzo del Senato e l’intera House of Representatives, come in tutte le elezioni di metà mandato. In palio ci sono 33 seggi senatoriali e i 435 scranni dei deputati. Oggi entrambe le camere sono guidate dal Partito repubblicano di George W. Bush. La maggioranza passerebbe ai democratici se questi riuscissero a guadagnare sei nuovi seggi al Senato e sedici alla Camera.
Sarà difficile, specie al Senato, ma la possibilità non è affatto remota, visti i sondaggi negativi sia per il presidente sia per la leadership politica del Congresso. Al momento, i migliori alleati dei democratici sembrano essere proprio i repubblicani, un po’ per l’odore di corruzione che li circonda, un po’ perché non riescono a trovare una soluzione al più grande problema che affligge gli americani che non è l’Iraq, ma l’aumento del prezzo della benzina. Bush e il Congresso continuano a far crescere la spesa pubblica e, soprattutto, non si mettono d’accordo su una delle questioni chiave di questa campagna elettorale: l’immigrazione. La più battagliera e radicale House vorrebbe imporre la linea dura contro i clandestini. Bush vorrebbe, invece, provare a integrare gli undici milioni di illegali attraverso l’adozione di un programma di lavoro temporaneo. Il Senato ha approvato una proposta di mediazione largamente bipartisan, ma la leadership repubblicana della Camera non cede e, proprio ieri, ha annunciato che prima di prendere una decisione finale sul testo del Senato vuole ascoltare gli esperti in una serie di audizioni itineranti da tenersi negli stati di confine. Se le cose dovessero andare per le lunghe, come è probabile, sfumerebbe la grande speranza bushiana di chiudere la questione prima delle elezioni e in tempo per organizzare alla Casa Bianca la cerimonia per la firma della nuova legge.
Sull’immigrazione il sisma dentro il movimento conservatore è potenzialmente devastante. Il leader dei duri e puri si chiama Tom Tancredo, un deputato dei sobborghi di Denver noto nel suo stato come leader dei cosiddetti “pazzi”, un gruppo di politici locali ferocemente contrari alle tasse. Tancredo è diventato famoso a livello nazionale quando ha proposto di bombardare la Mecca come rappresaglia contro il terrorismo islamista. Ora vuole costruire il muro anti immigrazione non solo lungo i mille chilometri del confine con il Messico, come prevede la legge bipartisan del Senato, ma anche a nord, per proteggere il confine tra gli Stati Uniti e il Canada. Tancredo sta emergendo come il nuovo Pat Buchanan d’America, il leader della destra protezionista che, nel 2000, si è candidato da indipendente con una piattaforma centrata sui valori tradizionali e sull’America first. Questa destra americana teme che gli immigrati possano rubare lavoro, pesare sui conti pubblici e rifiutare l’assimilazione. In una nazione fondata da immigrati e sugli immigrati, queste posizioni restano minoritarie, ma certamente esiste anche una linea moderata contro l’ipotesi di amnistia o legalizzazione dei clandestini. L’America è una nazione accogliente – dicono costoro – ma proprio per questo non si può favorire chi vi è entrato illegalmente a danno di chi da anni aspira in modo paziente e ordinato a diventare cittadino americano. Questa preoccupazione è molto diffusa nel paese e su questo sentimento condiviso fanno appello quei repubblicani che invitano Bush a bloccare la riforma come chiave decisiva per vincere le elezioni di novembre. Il presidente e i repubblicani moderati credono, al contrario, che sia folle alienarsi le simpatie dei latinos, la più grande e sempre più in ascesa minoranza d’America. I latinos sono tradizionalmente democratici, ma anche cattolici praticanti molto attenti alle questioni etiche e religiose di cui ormai i repubblicani sono diventati gli alfieri. Conquistare fette di elettorato latinos è decisivo per vincere le elezioni e, negli anni scorsi, analisti liberal come Ruy Teixeira hanno sostenuto che la crescita demografica dei latinos avrebbe assicurato al Partito democratico una maggioranza permanente. Nel 1996, il candidato repubblicano contro Bill Clinton, Bob Dole, convinse soltanto il 21 per cento degli ispanici. Bush è riuscito a invertire la rotta. Nel 2000, ha ottenuto il voto del 35 per cento dei latinos. Due anni fa è arrivato al 44 per cento. La strategia bushiana è rivolta a mantenere, se non a migliorare, questa performance tanto più che la popolazione ispanica cresce a tassi maggiori negli stati del sud controllati dal Partito repubblicano. Seguire la linea Tancredo, spiegano i bushiani, alla lunga potrebbe far perdere le roccaforti conservatrici.
Anche i democratici devono guardarsi dalle proprie divisioni interne, specie sull’Iraq, per evitare di proiettare sugli elettori l’ormai quarantennale immagine di partito incapace di difendere il paese e debole sulle questioni di sicurezza nazionale. I sei punti programmatici dei democratici, chiamati “Six in 06”, sono proposte per aumentare il minimo sindacale, per abbassare il costo dei farmaci, per rendere l’America più sicura, per togliere i sussidi alle grandi imprese petrolifere e destinare le risorse a favore dell’indipendenza energetica, per ridurre i costi di iscrizione all’università e, infine, per bilanciare il budget federale. Al momento non si conoscono i dettagli, ma il senso è chiaro: togliere i sussidi fiscali alle grandi industrie per impiegare quelle risorse nell’istruzione universitaria, nelle politiche di controllo del prezzo dei farmaci e nell’aumento dei salari minimi. I commentatori conservatori non si sono fatti scappare l’occasione per sottolineare come i democratici tendano sempre a parlare di politica interna e a sorvolare sulle questioni di difesa nazionale. Per non ripetere questo e altri errori sono nate due nuove riviste di orientamento centrista, “The democratic strategist” e “Democracy: a Journal of Ideas”, che ospitano le migliori intelligenze d’area e un’infinità di proposte concrete.
In realtà i democratici si occupano di Iraq, ma con risultati di cui non possono andare fieri. Nell’ultima settimana, hanno votato quattro volte e in quattro modi diversi al Congresso, autotrascinandosi nel caos a pochi mesi dalle elezioni. I repubblicani, dopo mesi di imbarazzi e di dubbi sulla campagna irachena, hanno deciso di approfittare di queste divisioni e, quindi, di puntare sulla guerra per provare a mantenere la maggioranza al Congresso.
L’offensiva parlamentare è cominciata a causa di John Kerry, l’ex avversario di Bush nel 2004 che un tempo era favorevole alla guerra, ma che ora si è pentito. Il senatore del Massachussetts ha proposto di ritirare le truppe americane dall’Iraq entro il 31 dicembre 2006, ma la sua – più che altro – era una mossa politica per accreditarsi con l’ala radicale del partito in vista delle primarie presidenziali del 2008. L’idea, in sé, non era sbagliata, visto che l’opposizione all’intervento in Iraq è l’unica piattaforma politica possibile per differenziarsi dalla favorita Hillary Clinton, come sa benissimo anche Al Gore. Kerry non aveva alcuna intenzione di portare il suo testo in aula, ma ci hanno pensato i repubblicani a farlo, provocando un voto sull’impegno militare in Iraq proprio per far emergere le contraddizioni dentro il Partito democratico. Il risultato è stato disastroso per i liberal: 93 senatori su 100 hanno votato per continuare la missione irachena, soltanto 6 hanno chiesto il ritiro. Un testo simile è stato votato alla Camera bassa un paio di giorni dopo, esattamente mentre D’Alema incontrava Condi Rice al dipartimento di stato. Simile l’esito: 256 deputati hanno votato a favore della missione e 153 contro l’estensione temporale di “Iraqi freedom”. Tre repubblicani libertari si sono opposti, ma i democratici ad aver votato con il partito di Bush sono stati 42. Non è finita. I liberal hanno escogitato una contromossa per imbrigliare i repubblicani, proponendo al Senato un provvedimento molto cauto e misurato che potesse attirare il voto di quei senatori moderati preoccupati dal basso gradimento per Bush e per la guerra. Il testo presentato dai democratici giocava sugli equilibri e sulle sfumature linguistiche: non chiedeva il ritiro delle truppe – anzi la parola “ritiro” non compare mai – ma preferiva parlare di un “riposizionamento” e di un “ridimensionamento” del contingente americano in Iraq a partire dalla fine di quest’anno. Per renderlo ancora più appetibile ai malpancisti repubblicani, il testo dei democratici non imponeva nemmeno un obbligo preciso, ma si limitava a riconoscere che questo fosse “l’orientamento del Senato”. L’operazione non è riuscita. Il primo intoppo è venuto da Kerry. Noto per la sua cronica disinvoltura a cambiare idea, mercoledì ha fatto storcere il naso ai leader del suo partito per il motivo opposto. In questo caso Kerry non ha sentito ragioni e non voluto mutare posizione: era per il ritiro e per il ritiro è rimasto. L’unica concessione è stata quella di spostare la data del rientro delle truppe dalla fine dell’anno al luglio del 2007. Il risultato diretto è stato che i democratici sono andati in aula con due provvedimenti diversi, spaccati al loro interno sul tema più scottante degli ultimi tre anni e scatenando la gioia degli uomini di Bush. L’emendamento di Kerry è stato votato per primo e ha ottenuto soltanto 13 voti a favore e 87 contrari. Ma anche la proposta moderata sul “riposizionamento” è finita male: non solo non è riuscita a convincere nessun senatore repubblicano, ma ha addirittura perso per strada cinque senatori democratici, i quali hanno votato con i bushiani per un risultato finale di 60 voti contro 39.
Gli strateghi repubblicani hanno individuato in questa debolezza dell’opposizione il punto su cui insistere e su cui centrare la campagna di novembre, esattamente come hanno fatto nel 2004. In questo ultimo mese, alla Casa Bianca, si sono tenuti vari incontri tra il Consigliere della Sicurezza nazionale, Stephen Hadley, e l’architetto dei successi elettorali di Bush, Karl Rove, tornato di recente a occuparsi principalmente di ciò che sa fare meglio: vincere le elezioni. Dieci giorni fa, il procuratore federale che indaga sul cosiddetto Ciagate ha comunicato a Rove che non sarà incriminato, liberando il primo consigliere di Bush da una vicenda giudiziaria che lo ha frenato per un anno e mezzo. A questi vertici della Casa Bianca è stata delineata una strategia che fino a qualche mese fa sembrava impensabile. I collaboratori di Bush credono che i repubblicani debbano rivendicare apertamente l’operazione irachena, piuttosto che prenderne le distanze, specie ora che a Baghdad s’è formato il nuovo governo e che al Zarqawi non c’è più. Gli scarsi risultati sul fronte interno – dal deficit federale al fallimento dei soccorsi a New Orleans – peraltro non offrono grandi alternative. Ma, di nuovo, sembra che sia stata la debolezza e la divisione interna tra i democratici a convincere gli strateghi della Casa Bianca a ripuntare sulla guerra al terrorismo come via maestra per vincere le elezioni o, almeno, non perdere il controllo del Congresso. A dimostrazione che il pericolo non è soltanto un lontano ricordo di una mattina di cinque anni fa né un problema esclusivo degli iracheni, ieri a Miami l’Fbi ha arrestato sette musulmani che lavoravano a un piano per far saltare in aria la Sears Tower di Chicago e altri edifici federali in giro per il paese. Sempre ieri, il New York Times e il Los Angeles Times hanno svelato un piano segreto dell’Amministrazione per controllare le transazioni finanziarie di persone sospettate di essere affiliate a organizzazioni jihadiste. Questo è il terzo programma antiterrorismo scoperto in pochi mesi dai grandi giornali. Gli altri due sono il piano di ascolto di telefonate dall’estero verso gli Stati Uniti effettuate da persone sotto controllo e, infine, la creazione di un mega-archivio con i dati di tutte le chiamate in entrata e in uscita da ogni telefono americano per poter effettuare, in caso di necessità, gli opportuni incroci e risalire alle eventuali connessioni nel territorio nazionale. A ogni scoop di questo tipo sono seguite grandi polemiche e chiassose richieste di incriminazione per Bush (“Let’s impeach the president for spying” è un verso dell’ultimo disco di Neil Young). La Casa Bianca ha sempre risposto spiegando che questi programmi sono stati fondamentali per prevenire ulteriori attacchi e, nemmeno tanto velatamente, ha accusato la stampa di aver indebolito le difese dell’America. I sondaggi continuano a bocciare Bush, malgrado sia in ripresa da almeno due settimane, ma la maggioranza degli americani giudica utili questi strumenti di prevenzione e gli strateghi di Bush sperano che i democratici paghino elettoralmente l’opposizione a queste iniziative.
I Dems non sono stati aiutati dal deputato John Murtha, ex reduce del Vietnam oggi volto pacifista della sinistra americana. Domenica, in diretta tv a “Meet the Press”, Murtha ha detto che i marine dovrebbero essere risistemati a Okinawa, in Giappone, pronti per essere rimandati in Iraq qualora ce ne fosse bisogno. L’assurdità e l’impraticabilità della proposta ha causato parecchi imbarazzi tra i leader del partito, che cominciano a temere di essersi di nuovo cacciati in un terreno troppo scivoloso.
La controffensiva repubblicana è cominciata con un discorso di Karl Rove, il 13 giugno in New Hampshire: “Non sto mettendo in dubbio il patriottismo di Murtha e Kerry – ha detto – Mi soprende però il fatto che siano sempre pronti a votare a favore di una guerra e poi tornare alla regola del tagliare la corda quando la guerra diventa difficile. Se avessimo ascoltato Murtha, le truppe americane sarebbero rientrate in patria alla fine di aprile e non avrebbero preso al Zarqawi”. Le parole di Rove hanno provocato le reazioni durissime di Murtha e di parecchi opinionisti liberal, ma la strategia ormai è stata delineata. I consiglieri di Bush fanno circolare tra i repubblicani un libriccino di 74 pagine curato dal Pentagono con le linee d’attacco sulla vicenda irachena e le risposte alle accuse degli avversari. Il 7 novembre si vedrà il risultato, anche se ancora non sappiamo a favore di chi.

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