Il Foglio non possiede la trascrizione dell’incontro tra Massimo D’Alema e Condolezza Rice, ieri a Washington. Al meeting, oltre ai diplomatici, ha partecipato Marta Dassù, ghostwriter dell’articolo di D’Alema pubblicato dal Wall Street Journal con un titolo irrispettoso, “Diplomacy Al Dente”, non molto apprezzato dalla squadra di Max. In forte discontinuità col precedente governo, all’incontro ha partecipato una traduttrice diversa da quella di cui si serviva Gianfranco Fini. Non siamo in grado, dunque, di fornire la lettera dei tentativi dalemiani di spiegare a Rice le complicate posizioni italiane – i bau bau di Oliviero Diliberto, la mediazione di Gennaro Migliore, i tormenti di Franca Rame – sugli aspetti del quadrante internazionale. Poco importa, a questo fine, notare che quel Partito democratico americano che D’Alema vorrebbe importare in Italia nelle stesse ore abbia votato per il mantenimento dei soldati in Iraq (93 a 6 il voto al Senato).
Resta il fatto che nel giro di due settimane, il ministro ha ragionato prima su una presenza militare a protezione di una rafforzata missione civile (fino al 26 maggio), poi su un tutti-a-casa all’italiana (fino al 15 giugno) e, infine, su un gravoso impegno a lasciare 39 ufficiali in Iraq, un po’ meno del contingente delle Isole Fiji. Il 20 maggio, D’Alema ha detto: “Il governo avvierà già nella prossima settimana un piano per ridefinire il carattere della presenza italiana in Iraq che diventerà una presenza civile”. Il giorno dopo, per riequilibrare a sinistra, ha chiesto all’America, non all’Iran, di abbandonare il nucleare: “Ritengo che si debba rilanciare una politica sul disarmo nucleare, il che comporta anche una riflessione da parte delle grandi potenze, a cominciare dagli Stati Uniti”. Di nuovo sull’Iraq, il 23 maggio, a una domanda sui mille soldati da lasciare a Nassiriyah, D’Alema ha risposto: “Vogliamo rafforzare la nostra presenza civile di sostegno alla ricostruzione democratica di quel paese. Ora serve un piano concreto, ma non c’è dubbio che una presenza civile ha bisogno di una protezione. Credo che nel giro di pochi giorni diremo che cosa faremo, quante persone saranno impegnate e che tipo di protezione avranno”. Il giorno dopo, vertice alla Farnesina col ministro della Difesa “in merito al ritiro e al contestuale rafforzamento del nostro impegno civile”. Raccontando l’evento, il Corriere della Sera ha scritto: “Dopo l’incontro alla Farnesina c’era qualcuno che, scherzando, ma non lontano dal vero, diceva: abbiamo portato a casa il ritiro, mica portiamo a casa tutti i soldati…”. Very dalemiano, indeed.
Sull’Afghanistan un termine pericoloso
Alla Faz, il 25 maggio, D’Alema ha spiegato: “Sostituiremo il nostro impegno militare con un impegno civile altrettanto risoluto”. Il 26, a Otto e mezzo, la risolutezza viene meno: “Ci sono molti paesi che sono presenti in Iraq senza contingenti militari”. D’Alema però addolcisce la svolta ammettendo che “è chiaro che la presenza delle Forze armate consenta una presenza più significativa della missione civile”, che poi era proprio ciò di cui aveva discusso fin lì. L’impegno si riduce poi a “un pacchetto di forme di cooperazione” (27 maggio), a “una commissione mista per un accordo di cooperazione” (8 giugno), a 39 ufficiali protetti dagli americani (ieri).
Su Hamas, D’Alema ha accantonato l’idea che “Hamas non è il nazismo” espressa in un’intervista a un blogger, ma continua a pencolare tra “il dialogo con Hamas è un dovere” (Ansa, 29 gennaio) e “Hamas non può essere considerato come un partner per i negoziati” di oggi. Sull’Afghanistan, per ora, siamo fermi sul “manterremo gli impegni”, anche se la promessa di “rafforzarli” ricorda pericolosamente l’Iraq. “Non si può affrontare il tema Afghanistan come il tema Iraq”, ha detto l’8 giugno. Speriamo.
17 Giugno 2006