Camillo di Christian RoccaI mullah, Israele e la rivoluzione democratica

Milano. Si può ottenere una tregua stabile in medio oriente senza pensare di cambiare il regime degli ayatollah iraniani o la dittatura baathista siriana? E’ possibile pensare a un futuro di sicurezza e di relativa tranquillità per il popolo israeliano, e per l’occidente, se a Teheran continuerà a esserci un potere rivoluzionario deciso a esportare militarmente l’islamismo radicale e, quando sarà possibile, a farsi scudo dell’atomica per ottenere i suoi obiettivi? Finché l’anacronistica dittatura di Assad rimarrà il crocevia del terrorismo internazionale, sia verso l’Iraq sia verso Israele, vedremo mai la fine delle stragi e l’avvio di una seria e durevole ricostruzione pacifica e democratica nella regione?
Sono questi i punti fondamentali dell’attuale crisi israelo-libanese e vanno inquadrati negli eventi post 11 settembre e nella risposta angloamericana all’attacco jihadista a New York e Washington. La guerra che lo stato ebraico sta combattendo per la sua sopravvivenza non è l’ennesima guerra arabo-israeliana, e non solo perché Egitto, Giordania, Iraq e perfino l’Arabia Saudita a differenza delle altre volte non sono interessati a colpire Israele (l’ha notato, onorevole D’Alema?). Si tratta, piuttosto, della stessa identica guerra che gli Stati Uniti, con l’aiuto intermittente di Europa, Nato e Onu, stanno combattendo in Afghanistan e in Iraq dopo l’11 settembre e che a poco a poco hanno cominciato a condurre col freno a mano tirato, più che altro per ragioni di politica interna.
Le azioni terroristiche di Hezbollah fanno parte dello stesso medesimo conflitto mondiale che ha colpito Madrid e Londra, ma non è soltanto una sfida islamista all’occidente. La furia jihadista ha colpito anche città musulmane come Istanbul, Sharm el Sheikh, Riad, Bali, ogni giorno devasta l’Iraq e l’Afghanistan e da ultimo è tornata a uccidere in India. Il dato più interessante è che c’è una paradossale corrispondenza di analisi tra gli osservatori americani che sono stati favorevoli al cambio di regime a Baghdad e chi in Europa vi si è opposto. Ieri Massimo D’Alema ha detto che “se la situazione oggi è così drammatica per Israele, per i palestinesi, per il Libano, per l’intera regione dipende anche dai fallimenti della politica di questi anni: torna alla mente l’analisi semplicistica di chi considerava la guerra in Iraq come l’avvio di una nuova straordinaria stagione, l’effetto domino che avrebbe prodotto democrazia e pace in tutta la regione, una visione ideologica illusoria, ci eravamo opposti a quella guerra anche per questa ragione”. D’Alema non ha citato l’intervento militare che a lui è piaciuto, quello in Afghanistan, ma è vero che l’offensiva di Hezbollah e di Hamas, decisa politicamente a Teheran e operativamente a Damasco, è direttamente collegata alla destituzione del tiranno iracheno e agli eventi successivi.
Prima e dopo l’11 settembre
Prima dell’11 settembre 2001, le forze jihadiste e i regimi dispotici che le hanno generate governavano indisturbati nel medio oriente allargato, grazie alla complicità americana, europea e dell’Ulivo mondiale che s’era convinto della fine della storia, dell’ineluttabilità del progresso e del fatto che il terrorismo andava combattuto nei tribunali di Manhattan o nelle corti penali internazionali. La diffusione dell’odio antioccidentale, il medioevo talebano, le falsità di Arafat, il doppio gioco dei riformisti iraniani, la corruzione Onu di Saddam, i numerosi attentati di al Qaida e, infine, l’attacco dell’11 settembre hanno fatto capire a George Bush e Tony Blair che girarsi dall’altra parte e sperare in Dio non era più una strategia percorribile. Dopo l’intervento angloamericano, due di questi regimi sono stati spazzati via. Ora colui che è stato per decenni il principale elemento di instabilità del mondo arabo è in carcere e i talebani non guidano più uno stato, anzi sono costretti a nascondersi sulle montagne con quel che resta di al Qaida.
Nella regione mediorientale si è aperta una grande battaglia militare e ideale tra due rivoluzioni, quella democratica e quella jihadista-dispotica. I guerrasantieri dispongono ancora di due stati, Iran e Siria, oltre che di milizie armate sparse nella regione e ora lavorano per dotarsi della Bomba. Il fronte democratico ha il suo centro vitale a Washington, a Londra, a Gerusalemme e comincia a compiere i primi passi a Baghdad e a Kabul: resiste, ma è indebolito dalle difficoltà, dai costi, dalle stragi, dalle polemiche, dall’incapacità occidentale di vincere una guerra e dalla prossima uscita di scena dei suoi leader Bush e Blair. Per fortuna c’è Israele.
Israele combatte per la sua sopravvivenza, non vive a distanza di migliaia di chilometri dal centro di potere jihadista e al riparo dai Qassam come gli americani e gli europei. Washington ha avuto il merito di cacciare i talebani e Saddam, ma secondo il Wall Street Journal ha perso per due volte l’occasione di esercitare pressioni efficaci sulla Siria e di far compiere un passo decisivo verso la pacificazione dell’area. Dopo la caduta di Saddam, Damasco era terrorizzata, temeva che da un momento all’altro gli americani potessero estendere le operazioni al suo territorio, magari attaccando i campi di Hezbollah. La pressione era così forte che a un certo punto i servizi siriani hanno consegnato agli americani i due figli di Saddam, ma è finita con la Casa Bianca costretta a cedere alle critiche dell’opinione pubblica internazionale. Colin Powell è volato a Damasco per rassicurare Assad. Il ringraziamento è stato quello di aprire le frontiere e lasciare entrare in Iraq le brigate islamiste. Una mossa speculare a quella compiuta dagli iraniani a est e al sud dell’Iraq, facendolo diventare così il campo di battaglia della guerra tra democrazia e jihad.
Quando l’anno scorso il Libano vibrava per la rivoluzione dei cedri e l’Onu aveva individuato nel regime siriano il responsabile dell’omicidio dell’ex premier libanese Rafiq Hariri, Stati Uniti e Francia si sono accontentati del ritiro dell’esercito regolare dal Libano. Oggi la situazione in Libano è simile a quella dell’Iraq, ha scritto Mohammed Fadhil sul Wall Street Journal. Entrambi hanno governi democratici deboli e incapaci di controllare le milizie manovrate dall’Iran e impegnate nella stessa guerra regionale che non ha l’obiettivo di migliorare la situazione di quei popoli. La strategia iraniana è chiara: togliere i riflettori dalla corsa al nucleare, trasformare il Libano in un nuovo Iraq, aprire un altro fronte, accettare l’offerta di mediazione dei governi occidentali e offrire la solita mezza soluzione con cui poter mantenere la regione nel caos. Il momento è giusto, con Bush giù nei sondaggi e la gran voglia di trovare una via d’uscita per far rientrare le truppe in patria. Blair andrà via, Sharon è in ospedale e il ritiro da Gaza è stato interpretato come un segno di debolezza. Molti analisti, però, credono che gli iraniani abbiano commesso un errore strategico questa volta, perché qui Israele combatte per la propria esistenza e non si fermerà fino a quando avrà disinnescato Hezbollah. Gli Stati Uniti potrebbero svegliarsi dal torpore, anche perché – come ha scritto il New York Sun – non è un caso che il ritrovato attivismo jihadista segua la scelta americana di abbandonare la cosiddetta politica estera da cowboy. Gli analisti conservatori vorrebbero che Bush approfittasse della situazione, perché è meglio affrontare l’Iran con le armi convenzionali, piuttosto che quando avrà il nucleare. Senza la Repubblica islamica non esisterebbe Hezbollah, ha scritto Bill Kristol. Senza gli ayatollah a Teheran, la Siria non avrebbe alleati. Senza quei due regimi, Hamas sarebbe in difficoltà. Senza la rivoluzione sciita, i sauditi avrebbero meno interesse a finanziare il fondamentalismo e non esisterebbero i talebani e probabilmente nemmeno Hamas. L’unico modo per vincere questa guerra – ha scritto Michael Ledeen su National Review – è far cadere i regimi di Teheran e Damasco e non sarà sufficiente che Israele sconfigga le loro propaggini Hezbollah e Hamas. Una pace durevole raramente si ottiene tra uguali, ma tra forti e deboli, ha scritto il direttore di Middle East Quarterly, Michael Rubin. La Seconda guerra mondiale è terminata quando il liberal Harry Truman ha usato sproporzionatamente la forza sul Giappone: le guerre si combattono fino a vincerle – dice Rubin – la diplomazia che mira a conservare lo status quo, e fa concessioni ai terroristi, non f a altro che assicurare ulteriori bagni di sangue.

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