Non ancora, dicono gli arabi”. Con questo titolo, l’Economist ha segnalato ai suoi lettori l’uscita di tre libri in lingua inglese sul tentativo angloamericano di impiantare la democrazia nel mondo arabo. Il settimanale londinese, con la consueta ironia, giunge alla conclusione che gli arabi non ne vogliono sapere di accettare le regole democratiche, almeno così in fretta come richiesto dalla comunità internazionale. La lettura critica dell’Economist su ciò che sta accadendo in Iraq è molto interessante, considerato che la rivista ha sostenuto fin dall’inizio l’intervento militare per destituire Saddam. I tre libri in questione, secondo l’Economist, sono un colpo al cuore per chiunque creda che la corsa alla democrazia sia la risposta giusta ai mali del medio oriente. I tre saggi sono: “The Foreigner’s Gift” dell’analista libano-americano Fouad Ajami, “The Prince of the Marshes” del diplomatico britannico Rory Stewart e, infine, “Arabs”, dell’arabista inglese Mark Allen.
Nessuno di questi libri sostiene che gli arabi siano inadatti a convivere con le regole democratiche, ma in un modo o nell’altro spiegano quanto sia difficile nella regione la diffusione del credo democratico. La storia raccontata da Stewart, per un anno a capo della provincia irachena di Maysan, è un mondo di caos, violenza, religione e tribalismo che ridicolizza le probabilità che i valori democratici possano diffondersi nell’immediato. Stewart ricorda che quando dovette nominare i consiglieri provinciali, i capi della polizia e i governatori si trovò di fronte a boss locali incapaci di comprendere le più elementari regole di convivenza democratica. Uno gli propose di uccidere gli eventuali rivali che avrebbero posto problemi alla democrazia, un altro gli disse che avrebbe tagliato la gola al cugino, se questi fosse entrato in Consiglio. Un terzo gli chiese come potesse pensare di far confessare i prigioneri senza ricorrere alla tortura.
L’Economist critica soprattutto il primo dei tre libri. Fouad Ajami è un pensatore neoconservatore, grande sostenitore delle politiche mediorientali di George W. Bush. Il “foreigner’s gift”, cioè il dono straniero, di cui scrive nel titolo è, appunto, l’imposizione della democrazia. Più che un dono, una disgrazia, secondo l’Economist. Ajami crede che la guerra in Iraq sia una “guerra nobile” che potrà finire o con un successo nobile oppure con una altrettanto nobile sconfitta. Per questo motivo il professore di studi mediorientali alla Johns Hopkins accusa i leader e gli intellettuali arabi che non hanno sostenuto il progetto democratico in Iraq. Allo stesso modo, Ajami vede nell’intervento americano l’opportunità di una rinascita del medio oriente, finalmente privo dell’odio antioccidentale e antiamericano. Al momento, non si può dire che l’obiettivo sia stato raggiunto, anzi il racconto dei due diplomatici britannici dimostrerebbe chiaramente come il programma neoconservatore sia assurdo e inapplicabile in questa zona del mondo.
L’elemento mancante nell’analisi dell’Economist è quel piccolo particolare dell’11 settembre. I neoconservatori, o chi per essi, non hanno professato la strategia democratica in medio oriente perché un giorno si sono svegliati con l’idea di modificare geneticamente la società araba e islamica. Costoro sono senza dubbio, pregiudizialmente e intimamente, convinti che la società aperta e il metodo democratico costituiscano l’unica alternativa possibile all’oppressione e al fanatismo, ma senza l’attacco agli Stati Uniti questa politica sarebbe rimasta al massimo una tendenza di lungo termine. La differenza non da poco, come ha scritto Andrew Sullivan l’altro ieri sul Sunday Times di Londra, è che dopo quelle stragi di New York e Washington, gli Stati Uniti non potevano più difendere lo status quo mediorientale che aveva creato quell’odio e quel fondamentalismo con cui sono state abbattute le due torri. L’alternativa ai regimi dispotici è ancora la democrazia, vista però come una soluzione pragmatica per riuscire a ribaltare una situazione dispotica ormai insostenibile. Si tratta, insomma, di una politica realista e non di un disegno ideologico elaborato a tavolino per migliorare la società. Come nei momenti decisivi della Guerra fredda, anche adesso realpolitik e chiarezza morale coincidono.
Fare affidamento sui moderati
Per questo, non ce ne voglia l’Economist, sembrano più interessanti le riflessioni di altri due esperti americani di cose mediorientali: Reuel Gerecht e Jeffrey Goldberg. Il primo è un ex agente coperto della Cia, gran frequentatore di moschee e di uomini barbuti e oggi analista dell’American Enterprise Institute. Goldberg è un giornalista liberal del New Yorker, uno che ha vissuto in una madrassa del Pakistan e nelle prigioni israeliane per poter scrivere i suoi libri. Di loro due ha parlato di recente David Brooks sul New York Times, ricordando che Gerecht ha appena pubblicato “The Islamic Paradox” e che a ottobre uscirà “Prisoners” di Goldberg. Gerecht è ottimista sul futuro democratico della regione, malgrado i magri risultati attuali da lui peraltro previsti per tempo. Sostiene, infatti, che sia normale confrontarsi con una prima fase della democrazia araba pessima e inaffidabile. Malgrado ciò, è meglio che la società araba passi attraverso una fase pseudodemocratica di questo tipo, piuttosto che aspettare una riforma religiosa che non arriverà mai. Il paradosso islamico, secondo Gerecht, è proprio questo: perché la democrazia possa avere un futuro, all’inizio bisognerà fare affidamento sugli ayatollah moderati, come per esempio Ali al Sistani. L’unico modo di riformare la regione, quindi, è sostenere il cambiamento democratico imperfetto di oggi, anche perché l’alternativa è sostenere le dittature odierne che sono state capaci di creare l’attuale estremismo islamista. E’ come quando si ha la febbre, talvolta è necessario averla, ma alla fine è proprio questa febbre che riesce a sconfiggere la malattia. Goldberg è più cauto, non si fida affatto dei cosiddetti moderati e ricorda che la febbre alta può anche uccidere il paziente. La soluzione offerta da Goldberg non è quella di spingere sull’acceleratore della democrazia, ma di scovare e sostenere i liberali, i riformatori e i laici del medio oriente, gli unici con cui poter avviare la riforma culturale necessaria a uno sviluppo democratico della società. David Brooks riconosce le ragioni di entrambi e spiega che l’aver raggiunto il picco della febbre scoraggia l’opinione pubblica, pronta ad abbandonare sia la democrazia imperfetta sia i liberali della regione. Il rischio è che torni la nostalgia dell’illusoria stabilità garantita dai vecchi despoti. La stessa che ha prodotto l’11 settembre.
25 Luglio 2006