Anche negli Stati Uniti, come altrove, l’intreccio tra le ragioni di sicurezza nazionale e il ruolo della libera stampa è uno degli argomenti più discussi del momento. Il dibattito politico, giuridico ed etico è infuocato, ma al netto delle divisioni politiche e delle posizioni ideologiche anche a Washington, come nel resto del mondo, il succo della questione sembra essere un altro: da una parte c’è chi considera la minaccia islamista un pericolo serio da affrontare con decisione e fermezza, dall’altra c’è chi lo ridimensiona considerando ben più grave per la società la disinvoltura d’azione del potere esecutivo e degli apparati dello stato. La grande stampa liberal americana svolge questo ruolo di guardiana delle libertà civili rispetto alle scelte dell’Amministrazione Bush, esattamente come la stampa conservatrice e isolazionista faceva negli anni 30 e ai tempi della Seconda guerra mondiale nei confronti dell’avventurismo oltreoceano dei democratici antifascisti e di Franklin Delano Roosevelt.
La differenza di fondo tra ciò che avviene oggi in Europa e in America è questa: negli Stati Uniti la magistratura ordinaria non prova a sostituirsi al governo o alle agenzie di intelligence per contestare la legittimità di singole operazioni in difesa della sicurezza nazionale. Il punto critico di dibattito è l’estensione dei poteri del presidente degli Stati Uniti. Secondo i consulenti legali della Casa Bianca, in tempo di guerra Bush ha tutto il potere di prendere le decisioni necessarie a difendere il proprio paese. L’autorità gli spetta dal suo ruolo di comandante in capo assegnatogli dalla Costituzione e dall’autorizzazione a usare la forza concessagli dal Congresso nel 2001. Fin qui la Corte suprema ha confermato questo schema giuridico, con l’eccezione della scelta di usare corti militari speciali per processare i terroristi di nazionalità straniera e di negare ai cittadini americani la formulazione di un capo d’accusa e un giusto processo. In realtà la Corte suprema ha ribadito che è il Congresso, non la magistratura, l’organo competente ad autorizzare le richieste speciali avanzate dal presidente, anzi ha suggerito alla Casa Bianca di rivolgersi a Capitol Hill per risolvere l’incertezza.
Ma se questi sono aspetti giuridici – tutti comunque improntati al rigoroso rispetto delle competenze costituzionali – le questioni più appassionanti del dibattito sono il rapporto tra l’Amministrazione e i giornali e tra l’Amministrazione e la Cia. Si tratta di uno scontro sulle strategie di lotta al terrorismo, con la Casa Bianca impegnata in una guerra interna che fin qui l’ha vista soccombere. La grande maggioranza degli scoop anti Bush proviene dalla Cia, in quella che qualche analista conservatore definisce la più grande e riuscita operazione coperta dell’Agenzia di Langley. Bush ha tentato con l’ex direttore Porter Goss di riformare la Cia e combattere le fughe di notizie unidirezionali, ma la burocrazia interna si è messa di mezzo e, alla fine, l’ha avuta vinta tanto che i due alti dirigenti licenziati da Goss sono tornati subito dopo le dimissioni di quest’ultimo, ottenendo una promozione. Uno di loro, Stephen Kappes, è diventato il vice del nuovo direttore Michael Hayden.
C’è un dilemma etico che investe i giornalisti quando vengono a conoscenza di notizie la cui pubblicazione potrebbe compromettere la sicurezza nazionale. Che fare in questi casi? I giornali, anche i più ferocemente anti Bush, ogni volta che sono venuti a conoscenza di notizie sensibili hanno cominciato una lunga trattativa con l’Amministrazione, in alcuni casi non scrivendo nulla, in altri ritardando anche di un anno la pubblicazione. E’ questo il caso di almeno quattro grandi scoop giornalistici degli ultimi mesi, due del New York Times, uno di Usa Today e uno del Washington Post che sono valsi a tre di questi cronisti altrettanti premi Pulitzer. Il primo riconoscimento è andato ai due giornalisti del Times, James Risen e Eric Lichtblau, che hanno scoperto l’esistenza del programma della National Security Agency con cui l’Amministrazione monitorava le telefonate di presunti terroristi stranieri effettuate negli Stati Uniti. Il giornale di New York ha chiesto conferma alla Casa Bianca, ma anche l’autorizzazione a pubblicare la notizia. La Casa Bianca si è rifiutata di dare l’ok, ma dopo un anno di trattative, il giornale diretto da Bill Keller ha deciso unilateralmente che le ragioni di sicurezza nazionale non fossero più un ostacolo, malgrado la Casa Bianca continuasse a sostenere che far conoscere ai nemici l’esistenza di un programma segreto avrebbe danneggiato gravemente la lotta al terrorismo. L’altro premio è andato a Dana Priest del Washington Post, la giornalista investigativa che ha reso nota l’esistenza di una serie di prigioni segrete della Cia in giro per il mondo e, con esse, le procedure di extraordinary rendition concordate dal Dipartimento di stato con vari alleati europei. Anche in questo caso la pubblicazione è seguita a una serie di trattative tra il giornale e l’Amministrazione sull’opportunità di pubblicare la notizia che, secondo i bushiani, avrebbe messo in difficoltà gli alleati di Washington come è puntualmente avvenuto. Nell’ambito di questo programma scoperto dal Post rientra il caso della cattura dell’imam radicale Abu Omar a Milano.
Più recentemente, Usa Today ha svelato che il governo americano ha chiesto ad alcune società telefoniche di fornire i dati delle chiamate in entrata e in uscita da ogni telefono d’America in modo da poterli immettere in un mega-cervellone da interrogare e consultare per scoprire eventuali connessioni americane dei presunti terroristi catturati all’estero. L’ultimo scoop è ancora del New York Times ed è, probabilmente, quello che ha creato maggiori dissapori tra il giornale della 43esima strada e la Casa Bianca. Alcuni mesi fa un vice segretario del Tesoro, Tony Fratto, aveva saputo che i cronisti del Times chiedevano informazioni su un programma segreto antiterrorismo che coinvolgeva il consorzio bancario internazionale, Swift.
Si trattava di un’operazione di monitoraggio delle transazioni finanziarie che è servita a bloccare alcune centrali internazionali del terrorismo, motivo per cui Fratto ha chiesto al Times di non svelarne l’esistenza. Il segretario (ora ex) al Tesoro, John Snow, ha invitato il direttore del New York Times Bill Keller nel suo ufficio, rinnovandogli l’invito a non pubblicare. La stessa cosa gli hanno chiesto i due presidenti bipartisan della Commissione sull’11 settembre, così come il senatore John McCain e poi il gran capo dei servizi John Negroponte e, infine, il deputato democratico più deciso nel chiedere il ritiro delle truppe dall’Iraq, John Murtha. Il Times ha deciso di pubblicare, avvertendo l’Amministrazione una settimana prima. Fratto ha chiesto, e ottenuto, di rinviare la pubblicazione di un altro giorno per permettere di far tornare negli Stati Uniti il funzionario di stanza a Bruxelles che seguiva le indagini alla Swift e, infine, si è incontrato con il Times per correggere le inesattezze della loro ricostruzione.
Bush, Dick Cheney e i leader repubblicani hanno criticato aspramente la rivelazione del giornale perché ora i finanziatori del terrorismo sanno che non devono più effettuare transazioni attraverso le banche che aderiscono al consorzio Swift. Alla Camera dei deputati c’è già una censura al New York Times, mentre molti opinionisti conservatori chiedono esplicitamente di applicare l’Espionage Act del 1917 per processare i vertici del giornale di New York. I liberal si affidano al precedente dei Pentagon Papers, anno 1971. Allora il New York Times e il Washington Post cominciarono a pubblicare una serie di documenti riservati sulla guerra del Vietnam nonostante Richard Nixon sostenesse che avrebbero potuto compromettere la sicurezza nazionale. La Corte suprema diede ragione ai giornali, ma in quel caso i segreti erano di natura storica, visto che nessuno di quei documenti era stato creato dopo il 1968. Un episodio, dunque, molto diverso dall’aver rivelato un programma antiterrorismo attivo. Il direttore del New York Times si è difeso con un lungo articolo, pubblicato in Italia da Repubblica, nel quale tra le altre cose spiega che aver svelato questi programmi segreti risponde al dovere di informare i propri lettori. L’accusa di tradimento non è plausibile, hanno spiegato ai piani alti del Times, perché aver raccontato i dettagli del programma Swift non equivale ad aver fornito ai nemici la posizione delle truppe americane in un teatro di battaglia. Il Wall Street Journal ha replicato che nella nuova guerra asimettrica post 11 settembre far conoscere agli avversari l’esistenza di un programma di monitoraggio delle transazioni finanziarie è proprio come aver svelato i movimenti delle truppe. Nel 1942 il Chicago Tribune – che era la voce dell’America isolazionista – completò una lunga serie di scoop contro la Casa Bianca di Roosevelt rivelando che i servizi avevano decritatto il codice di comunicazione giapponese, circostanza che permise alla flotta americana di vincere la battaglia di Midway. La Casa Bianca in un primo momento decise di portare in tribunale il giornale, poi preferì rinunciare per evitare di dare ancora più clamore alla vicenda (decisione azzeccata: i giapponesi non si accorsero dello scoop del Tribune e continuarono a usare il codice).
La questione di questi giorni, dunque, è se tutte le notizie siano “fit to print”, cioè adatte a essere pubblicate, come recita lo slogan del New York Times. Oppure se – come diceva uno dei più grandi costituzionalisti americani, Alexander Bickel – una limitazione sia necessaria, specie quando ci sono di mezzo considerazioni sull’interesse nazionale. La stampa dovrebbe considerare la responsabilità della sua posizione e considerare seriamente le richieste del governo. Ma questo fa tornare la questione al punto centrale, oggi come nel 1942: per rendersene conto la stampa deve riconoscere che ci sia un pericolo o, perlomeno, che Bush e Roosevelt siano i soggetti legittimati ad affrontarlo.
Non si è ancora capito se il caso Swift finirà innanzi a un tribunale o meno, ma se ci finirà è più probabile che i giudici saranno chiamati a mettere sotto accusa i funzionari governativi che hanno passato ai giornalisti le informazioni coperte da segreto e in violazione del loro dovere di fedeltà all’istituzione cui appartengono. C’è già una proposta avanzata dal presidente del Comitato sui servizi della Camera, Peter Hoekstra. La strada per ottenere il nome dell’informatore governativo è molto pericolosa, perché è quella già adottata in occasione del Ciagate e porta dritti all’arresto del cronista che non vuole svelare la sua fonte.
La parola chiave di questo grande romanzo americano sui rapporti tra potere esecutivo e quarto potere è “leak”, fuga di notizie. Ci sono fughe di notizie considerate buone (quelle che svelano programmi o inefficienze dell’Amministrazione Bush) e “leak” da punire severamente perché fatte trapelare da ambienti favorevoli alle politiche di Bush. Sicché quando Porter Goss ha licenziato l’analista Cia Mary McCarthy con l’accusa di aver passato alla giornalista del Washington Post le informazioni sulle prigioni segrete della Cia, la stampa liberal ha gridato alla persecuzione di valorosi funzionari del governo che hanno avuto il coraggio, sebbene in modo anonimo, di denunciare le malefatte della Casa Bianca. Al contrario, partono inchieste giudiziarie e processi mediatici sommari quando altri funzionari dell’Amministrazione passano ad altri cronisti per esempio la notizia che non era stato Cheney ad aver inviato in Niger l’ambasciatore Joe Wilson – come aveva lasciato intendere lo stesso Wilson – ma la di lui moglie Valerie Plame. In questo caso c’era in ballo la possibilità, poi scartata dal procuratore federale, che fosse stata violata la legge che impedisce di svelare l’identità di agenti sotto copertura (normativa che, evidentemente, in Italia non esiste visto che negli ultimi giorni i nostri giornali hanno fatto saltare la copertura di tre tra agenti e fonti Sismi). La stessa cosa è accaduta quando un funzionario neoconservatore del Pentagono, Lawrence A. Franklin, ha passato informazioni riservate sull’Iran a due lobbysti pro Israele dell’Aipac. La stampa liberal, in quell’occasione, ha chiesto e ottenuto l’attuazione dell’Espionage Act del 1917, grazie al quale Franklin è stato condannato a oltre 12 anni di prigione. Si tratta della stessa legge che i medesimi giornali ora considerano un insulto applicare nei confronti dei loro “leakers”, i quali proprio come Franklin hanno rivelato informazioni riservate ma con l’aggravante di averle soffiate a un giornalista con l’intento di renderle disponibili a tutti.
Il Plamegate è il caso più emblematico di questo doppio standard assegnato alle diverse fughe di notizie. Il principale consigliere di Bush, Karl Rove, è stato tenuto nel limbo giudiziario per quasi due anni, prima di essere stato dichiarato estraneo alla vicenda. Ed è notizia di ieri che il primo giornalista ad aver scritto il nome di Valerie Plame, Robert Novak, è venuto a conoscenza dell’identità della signora Wilson non da una soffiata maliziosa di qualche sodale di Bush o di Cheney, ma dal “Who’s who”, cioè dall’annuario delle personalità viventi che si può acquistare in qualsiasi libreria d’America.
13 Luglio 2006