Camillo di Christian RoccaDemocratici

Mancano settanta giorni alle elezioni di mid-term del 7 novembre che potrebbero cambiare lo scenario politico di Washington. Due anni dopo la riconferma di George W. Bush alla Casa Bianca – e a due anni dalle elezioni presidenziali del 2008 con cui si chiuderà l’era Bush – gli americani si preparano ad eleggere la Camera dei rappresentanti e a rinnovare un terzo dei loro 100 senatori. Da sei anni il Congresso è guidato dai repubblicani, ma la maggioranza ora è a rischio. Più facile che sia la Camera a cambiare colore: ai democratici infatti è sufficiente conquistare 15 dei seggi oggi occupati dai repubblicani, oltre a mantenere i propri. I sondaggi dicono che il partito di Bush rischia in 36 collegi. Più complicata la situazione al Senato, dove ai democratici servono sei seggi repubblicani. In cinque stati è prevista una vittoria del partito d’opposizione, ma i democratici dovranno evitare di perdere un paio dei propri seggi a rischio di sconfitta. In generale la situazione è talmente favorevole ai democratici che uno dei suoi più rumorosi consulenti, James Carville, ha dichiarato che se non si riuscisse a vincere in questo clima così favorevole, si dovrebbe mettere in dubbio l’idea stessa del Partito democratico. Bush è il presidente che affronta le elezioni di metà mandato con il gradimento più basso dai tempi di Harry Truman nel 1950. Un altro indicatore a favore di un cambio di maggioranza è la raccolta fondi, mai stata così generosa per le casse del Partito democratico. Se a questo si aggiungono l’impasse in Iraq, l’incertezza sul da farsi con l’Iran atomico e il caos nel Libano mediorientale, sembra proprio che il 7 novembre sarà una passeggiata per l’opposizione. Eppure i democratici non sono tranquilli, temono la straordinaria macchina organizzativa dei repubblicani, i quali sono soliti finire le elezioni meglio di come le hanno cominciate. Nelle ultime settimane, infatti, i sondaggi di Bush sono leggermente migliori: ora il suo gradimento è intorno al 42 per cento. La Casa Bianca non può essere certa di evitare una sconfitta, ma il trend positivo le concede una chance concreta di salvataggio. I democratici temono anche una “october surprise”, una qualche diavoleria escogitata dal consigliere di Bush, Karl Rove, capace di fregarli in dirittura d’arrivo. Gli osservatori conservatori credono che Bush potrà salvarsi soltanto se seguirà il suo istinto sui tre temi che stanno a cuore alla maggioranza degli americani: sicurezza nazionale, riduzione delle tasse e fine del dominio liberal nella magistratura. Comunque vada, storici e analisti di destra come di sinistra assicurano che il risultato elettorale di metà mandato avrà un effetto minimo sulle presidenziali del 2008.
La gran parte dei candidati democratici alle elezioni di novembre è contraria a fissare una data certa per il ritiro delle truppe dall’Iraq. Nei 46 collegi della Camera in bilico tra repubblicani e democratici, 29 aspiranti deputati del partito dell’Asinello si oppongono al ritiro. Nei 13 stati dove è possibile che il senatore cambi colore, sono sette i contendenti democratici favorevoli a un calendario di ritiro. Il Washington Post ha notato che la maggioranza dei candidati pensa che la cosa più saggia da fare sia accusare Bush e i repubblicani per i problemi in Iraq, evitando il più possibile di far conoscere la ricetta democratica. Ammesso che ci sia.
Non abbiate idee e state zitti, se potete. E’ questo il consiglio strategico di Peter Beinart ai suoi amici democratici. Beinart è un saggista d’area, nonché ex direttore del magazine New Republic. In controtendenza con chi auspica un programma di governo del Partito democratico capace di far sognare gli americani – sul modello di quel Contratto con l’America con cui Newt Gingrich nel 1994 conquistò la maggioranza repubblicana al Congresso – Beinart suggerisce di puntare sull’insofferenza diffusa nei confronti dei repubblicani e di non proporre nessuna idea, nessuna agenda, niente di niente. Un programma democratico, spiega Beinart, è ciò che i repubblicani aspettano come manna dal cielo per trasformare un’elezione che oggi è un referendum su Bush in una scelta tra due opzioni politiche. Se il 7 novembre si voterà pro o contro Bush, i democratici hanno forti chance di vittoria. Se i repubblicani riusciranno a trasformare il voto in una scelta su quale sia la politica migliore per il paese, il partito di Bush avrà la concreta opportunità di convincere la maggioranza conservatrice a superare le diffidenze attuali e recarsi alle urne per evitare guai peggiori. I democratici, suggerisce Beinart, dovrebbero limitarsi a dire “è l’ora di cambiare” e “non ne avete abbastanza?”, anche perché le elezioni di metà mandato sono diverse da quelle presidenziali. Alla Casa Bianca non ci si può presentare senza offrire agli americani “vision” e “leadership”, come hanno fatto John Kerry nel 2004 o Michael Dukakis nel 1988. Ma per questo ci sarà tempo nei prossimi due anni. Nel frattempo i democratici dovranno fare una cosa molto più semplice: ricordare di essere diversi da George W. Bush e poi tacere.
Il settimanale d’area democratica, New Republic, ha pubblicato una feroce critica all’ipotesi che l’Italia guidi la missione Onu in Libano. Il titolo dell’articolo di Jeremy Kahn ricorda quello dell’Economist contro Berlusconi: “Why Italy shouldn’t lead the U.N. mission in Lebanon”. L’Italia non è in grado di gestire una missione così delicata a causa di un’innata incapacità organizzativa, confermata nelle sue missioni all’estero. La rivista Stratfor sostiene inoltre che Israele potrebbe aver puntato sull’Italia proprio perché certa del suo fallimento, garantendosi così una giusta motivazione per riprendere la guerra contro Hezbollah.

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