New York. C’è una sinistra molto chic e molto ricca che crede davvero che la Casa Bianca di George W. Bush sia una minaccia maggiore per il mondo rispetto all’islamismo radicale e alle organizzazioni terroriste. E’ una sinistra che denuncia il crescente potere temporale del cristianesimo, ma sminuisce la ben più concreta sfida islamista. Se ne sono accorti anche i leader fondamentalisti, peraltro. I capi di al Qaida citano gli articoli del New Yorker di Seymour Hersh e i reportage dell’Independent (e dell’Unità) di Robert Fisk, il venezuelano Hugo Chávez consiglia un libro anti imperialista di Noam Chomsky, mentre è notizia di ieri che l’antisemita in capo, Mahmoud Ahmadinejad, durante la sua recente visita newyorchese abbia chiesto insistentemente di incontrare Michael Moore.
Per meglio sottolineare l’odio antropologico nei confronti del presidente texano, questa sinistra americana arriva a rinnegare idee e tesi che sono sempre state nel suo dna. La democrazia, per esempio. Ogni volta che Bush parla di promuovere una società libera in medio oriente o altrove, i rappresentanti di questa sinistra dicono che non va bene, che non si fa così, che non si possono imporre i nostri valori. C’è sempre una scusa pronta, purché dia torto all’odiato texano anche se, o soprattutto se, pretende di farsi portavoce di idee che la sinistra liberal ha sempre sostenuto. Ieri, per esempio, una delle pagine delle opinioni del New York Times si apriva con un lungo articolo dal titolo “Don’t force democracy in Burma”, un invito a non aiutare i democratici birmani come, per esempio, Aung San Suu Kyi, la quale invece supplica l’occidente a fare il contrario, a usare le sue libertà per promuovere quelle degli oppressi.
La stessa cosa viene ripetuta sull’Iraq e sul medio oriente, spesso avventurandosi in spericolati ragionamenti per cui certamente è giusto aiutare i democratici di quella regione, anche se in questo momento è meglio non farlo o perché qualcuno ha deciso che è troppo presto o perché non ci sono ancora le condizioni. Progetti alternativi non ce ne sono, tranne da parte di chi propone dialogo con chi vuole cancellare uno stato dalla carta geografica o varie forme di appeasement nei confronti di dittatori e fondamentalisti. Guai, peraltro, quando lo fa Bush, perché se è vero che non gli viene perdonato di aver usato l’hard power contro Saddam, è altrettanto vero che lo si accusa di essere un pappamolla con il pachistano Musharraf o con i nordcoreani oppure con i sauditi e anche di non essersi ancora deciso a inviare truppe in Darfur contro il regime islamista sudanese, senza peraltro chiedersi se il jihad sudanese contribuirebbe o no alla nascita di nuove generazioni di terroristi. La sinistra americana ha abbracciato una specie di realismo amorale – hanno scritto ieri i centristi del Partito democratico – che è più nella tradizione dei conservatori che in quella dell’interventismo liberale. Parole molto simili a quelle usate da Bush, stupito che il partito di Roosevelt e Truman sia diventato il partito del ritiro.
Il campione di questa sinistra è il multimiliardario di sinistra George Soros, speculatore, filantropo e pioniere della promozione della democrazia nell’Europa dell’esst, in teoria un precursore della dottrina Bush. Ma soltanto in teoria, visto che ora è impegnato soprattutto a “rimuovere” Bush dalla Casa Bianca. Giovedì sera, all’attento pubblico del Council on Foreign Relations, ha detto che è sbagliato promuovere la democrazia negli stati totalitari, dove i regimi non lo permettono: “Se parliamo di regime change in Iran o in Cina, otteniamo il contrario”. Nel dire ciò ha spiegato che le politiche, i metodi e le tecniche usate da Bush gli ricordano molto da vicino quelli nazisti e comunisti che lui stesso ha visto nella sua natia Ungheria. Un ragionamento contraddittorio, perché se nei regimi totalitari non si aiutano i democratici non si capisce come mai Soros abbia donato così tanti soldi per cacciare lo pseudo-nazicomunista dalla Casa Bianca.
Soros ha appena pubblicato un nuovo libro, “The Age of Fallibility – Consequences of the war on terror”, e di questa contraddizione si è accorto anche lui, tanto che dopo aver dedicato pagine e pagine alle somiglianze tra il regime Bush e nazismo e comunismo, ha scritto che l’America resta comunque un paese libero, grazie alle sue istituzioni e al fatto che Bush e Cheney in fondo non sono mossi da un’ideologia potente come quella nazista o comunista.
Ma l’obiettivo del libro è soprattutto un altro, quello di spiegare ai liberal che pendono dalle sue labbra e dalle sue tasche che è sbagliatissimo combattere la guerra al terrore, anzi che non esiste il terrorismo come pericolo globale e ideologico per il mondo occidentale. Piuttosto, ha detto Soros, la Casa Bianca dovrebbe occuparsi di “surriscaldamento della terra, di proliferazione nucleare e di aumento delle spese militari”, i veri pericoli che corre la nostra società.
Soros sostiene che la “war on terror” sia una metafora falsa e ingannatrice, un’astrazione controproducente. Secondo il finanziere, aver messo la politica americana dentro la cornice “guerra al terrore” ha già provocato danni irreparabili nel mondo e in America, di cui anche lo stesso Partito democratico ancora non si rende conto.
Soros è convinto che la guerra al terrore sia soltanto un grimaldello usato dai bushiani per perseguire i loro interessi (quali, non lo dice). “Il terrore non si può combattere”, dice Soros. Spiega, inoltre, la fallacità del pericolo terrorista, salvo poi riconoscere che esiste una “minaccia posta da al Qaida e i suoi affiliati”. Questa, dice Soros, è una minaccia reale che richiede una risposta forte, purché sia diretta ad al Qaida e non all’astrazione chiamata “war on terror”: “Per essere più convincente dovrei spiegare chiaramente quale sia la risposta corretta, ma non è una questione semplice”. E, infatti, il finanziere propone soltanto un maggiore uso dell’intelligence (salvo dare di traditore a Bush per i metodi di interrogatorio), prevenzione (anche se giudica eccessivi i controlli agli aeroporti), conquistare la fiducia degli islamici, non spaventare gli americani e, se è il caso, anche la forza militare. Sull’Iraq, la ricetta di Soros è più semplice, bisogna ritirarsi subito anche se l’effetto sarà creare “un altro Darfur”, mentre “che cosa fare con la gente tipo Saddam è uno dei grandi e irrisolti problemi del nostro mondo”. In verità, oggi è in galera e sotto processo per genocidio.
30 Settembre 2006