Camillo di Christian RoccaStay the course vs. cut and run

New York. Iraq e immigrazione. C’è un gran via vai alla Casa Bianca, a pochi giorni dalle elezioni di metà mandato del 7 novembre. Ieri mattina, circondato dai leader del Congresso, George W. Bush ha firmato la legge anti immigrazione che, tra le altre cose, prevede la costruzione di una barriera protettiva lungo il confine con il Messico. Non è la sua legge, questa. Bush avrebbe voluto legalizzare, sia pure temporaneamente, la presenza degli immigrati clandestini che lavorano negli Stati Uniti, ma il Congresso ha deciso di adottare un provvedimento molto più restrittivo. Gli esperti sostengono che questa firma aiuterà i candidati repubblicani a recuperare nei collegi, ma la questione principale resta quella dell’Iraq.
Fino a un paio di giorni fa la regola della campagna elettorale era questa: i repubblicani evitano di parlare di Iraq, concentrandosi sulle questioni di sicurezza nazionale e magari sull’economia, mentre i democratici cercano di ricordare in ogni modo possibile il fallimento dell’intervento militare deciso da George W. Bush (con il loro consenso). Lo schema è stato seguito alla perfezione dall’opposizione democratica, mentre i repubblicani – travolti da scandali sessuali e continue cattive notizie provenienti dall’Iraq – non sono riusciti a spostare l’attenzione sulla guerra al terrorismo, salvo nei giorni intorno al quinto anniversario dell’11 settembre. Senonché, due giorni fa, è stato Bush stesso a far saltare la regola, a cambiare registro e a puntare ancora una volta sull’Iraq per vincere le elezioni o, almeno, per non perderle. La nuova strategia di comunicazione ha avuto tre momenti chiave. Nel weekend, in uno dei giardini della Casa Bianca è stato impiantato un tendone che poi, lunedì, ha ospitato la diretta dei più importanti talk show radiofonici conservatori del paese. Condi Rice, Karl Rove e altri senior advisor della Casa Bianca si sono alternati per tutta la mattina ai microfoni delle “conservative talk radio” per spiegare l’importanza del voto di metà mandato e della vittoria in Iraq. Mercoledì mattina Bush ha convocato i giornalisti per una conferenza stampa, introdotta da un suo lungo intervento centrato quasi esclusivamente sull’Iraq. Subito dopo, nello studio ovale, il presidente ha ricevuto una decina di editorialisti conservatori, da Mark Steyn a Charles Krauthammer a Michael Barone, con i quali ha di nuovo parlato di Iraq. La parola d’ordine non è più “stay the course”, cioè mantenere la rotta, ma “flexibility”, flessibilità. Esattamente come i democratici non usano “cut and run”, cioè scappare a gambe levate, per definire la loro politica irachena, preferendo “redeployment”, nuova dislocazione delle truppe.     (continua a pagina quattro)
(segue dalla prima pagina) Gli strateghi elettorali hanno suggerito a Bush di non usare più la frase “stay the course”. Continuare a ripetere di voler mantenere la rotta in Iraq, secondo gli esperti, lascia intendere che la Casa Bianca non si renda conto delle difficoltà sul campo e non abbia alcun piano alternativo per cambiare, piuttosto, il corso di una guerra che non sta andando come si prevedeva. Agli editorialisti conservatori, Bush ha spiegato che, in realtà, “stay the course” vuole dire “vinceremo”, una cosa diversa dal “non cambieremo tattica” percepito dagli americani. Bush ha fatto un esempio: “La scorsa primavera pensavo che saremmo stati in grado di dire agli americani che presto avremmo avuto meno truppe in Iraq. Sapete perché pensavo questo? Perché era il pensiero del generale Casey. Lui credeva che la situazione stesse progredendo al punto da consentire agli iracheni di potersi difendere da soli, ma a causa della violenza settaria ispirata da al Qaida non è andata così. Ora mi ha detto, guarda, abbiamo bisogno di più truppe, non meno”. E avrà più truppe.
“I nostri obiettivi non stanno cambiando, siamo però flessibili nei metodi per raggiungere questi obiettivi”. Nessun cambiamento di strategia in corso, soprattutto del tipo proposto dai settori più tradizionali del Partito repubblicano che suggeriscono di abbandonare i sogni democratici. I giornali liberal parlano da tempo del rapporto, non ancora pubblicato, dell’Iraq Study Group guidato dall’ex segretario di stato di Bush senior, James Baker. Secondo le indiscrezioni, il gruppo di studio sull’Iraq proporrebbe al presidente di lasciar perdere il futuro democratico della regione e di coinvolgere Iran e Siria. Bush si è rifiutato di commentare le voci, riservandosi di rispondere alle proposte di Baker una volta che si conoscerà il testo. Difficilmente, però, prenderà in considerazione il suggerimento, anche perché ha centrato la sua intera presidenza post 11 settembre sulla democratizzazione del medio oriente.
C’è anche un’altra parola, “benchmark”, parecchio usata da Bush negli ultimi giorni. Alla conferenza stampa di mercoledì è stata pronunciata 13 volte. I benchmark sono i paletti che la Casa Bianca vorrebbe che il governo iracheno rispettasse, quanto a diminuzione della violenza e a capacità di usare le proprie forze di sicurezza. Il premier al Maliki ha detto che il suo governo non si fa imporre il programma da altri e Bush non ha voluto dire se ci saranno conseguenze in caso di mancato rispetto di questi obiettivi.
Ai contrari alla guerra resta il monopolio della frase “exit strategy”, un altro modo per dire andiamocene via il prima possibile. In un editoriale dal titolo “Cut and run?”, l’Economist ha scritto che gli americani, con il voto di metà mandato, hanno il diritto di punire la politica irachena di Bush, ma dovrebbero farlo evitando di punire anche il popolo iracheno.

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