New York. La novità delle elezioni di metà mandato è l’arrivo al Congresso dei “democratici illiberali”, almeno così li ha definiti la rivista di sinistra Slate. Si era detto, genericamente, che il Partito democratico avesse scelto candidati conservatori per vincere le elezioni di mid-term, con il risultato di aver mandato a Washington un gruppo di neoeletti molto diversi dall’élite liberal e di sinistra della east e della west coast. Fin qui si è parlato soprattutto dei “blue dogs”, la coalizione di democratici di destra, antiabortisti, favorevoli alla libertà di porto d’armi e tosti sulla sicurezza nazionale. A questi si sono aggiunti i “fighting democrats”, i veterani dell’Iraq, orgogliosi di aver servito il paese (cinque eletti) e anche i “western democrats”, cioè l’ala libertaria e populista delle Montagne Rocciose che ha il suo leader naturale nel governatore del Montana, Brian Schweitzer, e ora anche il primo rappresentante al Congresso, il neosenatore, sempre del Montana, Jon Tester.
Il gruppo più consistente però è quello degli isolazionisti, dei protezionisti, dei nazionalisti economici, vicini alle posizioni di personaggi addirittura più a destra del Partito repubblicano, come Pat Buchanan, il quale infatti ha salutato con soddisfazione il ritorno del “nazionalismo economico” e, potenzialmente, anche all’isolazionismo in politica estera. Questi nuovi democratici paraleghisti hanno condotto campagne elettorali – soprattutto in Ohio, in Virginia e nel midwest – contro la globalizzazione economica, contro il libero commercio, contro l’immigrazione che toglie posti di lavoro agli americani e contro uno dei più grandi risultati ottenuti dalla presidenza Clinton, ovvero gli accordi di libero scambio con i paesi nordamericani. Il loro punto di partenza è che i lavoratori statunitensi se la passano male, ma anziché accusare i concittadini se la prendono con i poveri del terzo mondo. Se sono contrari alla guerra in Iraq è per lo stesso motivo, non in quanto pacifisti, ma perché reputano più utile aumentare i salari in America piuttosto che costruire ospedali a Baghdad.
(segue dalla prima pagina) A Washington si prospettano giorni difficili per la leadership del Partito democratico, abituata da anni a confrontarsi soltanto tra la sua anima liberal – Nancy Pelosi, Al Gore, John Kerry – e quella clintoniana, cioè i cosiddetti “new democrats” centristi. Il partito e la macchina dei finanziamenti elettorali sono nelle loro mani, da un paio d’anni insieme con Howard Dean, l’ex centrista governatore del Vermont, diventato l’idolo dei liberal alle primarie del 2004 e ora presidente del partito e leader dei “netroots”, l’ala radicale che ha trovato sui blog uno sfogo formidabile per esprimere tutta la sua rabbia contro Bush e contro l’establishment moderato del Partito democratico. Con l’aumento consistente dei “blue dogs” conservatori, dei popu-libertari del west, dei “fighting democrats” e degli “illiberal nazionalisti” sarà difficile guidare il gruppo congressuale, anche perché il partito non ha un piano condiviso su nessuno dei grandi problemi all’ordine del giorno. Gli osservatori politici cominciano a chiedersi se questi nuovi arrivati seguiranno la disciplina di partito oppure se proveranno a mantenere le loro promesse elettorali su aborto, porto d’armi, sicurezza nazionale, tasse e immigrazione. Alcuni pensano che alla fine si adegueranno, altri ne sono meno convinti per tre motivi. Intanto questi gruppi sono diventati più importanti e, inoltre, possono schierare figure di peso nazionale. Infine perché, tra due anni, si dovranno ripresentare negli stessi collegi conservatori dove questa volta sono riusciti a convincere gli elettori, ma se avranno condiviso le scelte liberal del partito difficilmente torneranno a Washington nel 2008.
Il primo segnale di tensione si avrà nel momento in cui saranno scelti i presidenti di Commissione che, come vuole la regola dell’anzianità di servizio, saranno tutti appartenenti all’establishment del partito. Nancy Pelosi ha già promesso l’aumento dello stipendio minimo, tra l’altro in sei stati sono passati altrettanti referendum favorevoli all’aumento, consolidando la forza della nuova ala populista e nazionalista del partito. I leader sono il nuovo senatore dell’Ohio, Sherrod Brown, autore di un libro sui “miti del libero commercio”, James Webb, l’ex repubblicano della Virginia, Claire McCaskill, neosenatrice del Missouri. Il loro possibile candidato per la Casa Bianca potrebbe essere John Edwards. Quest’estate scade l’autorità concessa dal Congresso a Bush per negoziare gli accordi multilaterali sul commercio. Difficilmente sarà rinnovata da questo Congresso, una brutta notizia per il Doha Round, per i trattati con la Corea del sud e altri paesi, soprattutto per chi credeva che la sconfitta di Bush avrebbe causato un ritorno al multilateralismo americano.
11 Novembre 2006