Camillo di Christian RoccaCambio della guardia al Pentagono, forse anche nella politica estera

New York. Rivoluzione nei palazzi della politica americana, dopo la sconfitta repubblicana alle elezioni di metà mandato. Il contestatissimo segretario della Difesa, Donald Rumsfeld, si è dimesso dal suo posto di capo della macchina militare. Il nuovo capo del Pentagono, se confermato dal Senato di Washington, sarà Robert Gates, texano, 63 anni, ex direttore della Cia dal 1991 al gennaio 1993, quando il presidente degli Stati Uniti era George Bush senior. Ieri pomeriggio Bush junior ha raccontato di aver deciso di accettare le dimissioni di Rumsfeld parecchi giorni fa, malgrado più o meno contemporaneamente a questa sua decisione, in un’intervista, avesse detto che avrebbe tenuto sia Rumsfeld sia il vicepresidente Dick Cheney accanto a sé.
La mossa di Bush serve ad affrontare subito un problema che nei prossimi mesi gli avrebbe creato grandi difficoltà con la maggioranza democratica al Congresso. Anzi è possibile che altro personale civile della Difesa abbandoni presto il Pentagono, perché con il potere d’inchiesta del Congresso in mano ai democratici rischierebbe di passare i prossimi due anni a rispondere alle domande delle Commissioni investigative guidate dal nuovo partito di maggioranza.
Ma la scelta di Bush segnala anche qualcosa di potenzialmente più importante della semplice sostituzione di un pilastro dell’Amministrazione, probabilmente un possibile cambiamento radicale della politica militare americana dei prossimi mesi, e forse non solo militare. Bush aveva pensato a Gates già l’anno scorso, ma per il posto di direttore nazionale dell’intelligence poi affidato a John Negroponte (in quell’occasione Gates aveva scelto di restare alla guida della Texas A&M University). Il profilo di Gates fa intuire che a Washington, Bush a parte, nelle prossime settimane il nuovo dominus non sarà più Dick Cheney – ieri assolutamente confermato da Bush – ma il gruppo di repubblicani vecchio stampo, gente di scuola realista, vicini a Bush senior e raccolti intorno al suo ex segretario di stato, James Baker. Il prossimo segretario della Difesa, intanto, è membro della Commissione bipartisan guidata da Baker e Lee Hamilton che sta lavorando da tempo a quella che nei circoli dell’establishment della politica estera americana è considerata come “l’ultima speranza per mettere a posto l’Iraq”. Dopo la vittoria elettorale di ieri notte, quasi tutti i leader democratici hanno citato questo rapporto – che ancora non esiste – come il suggerimento che il nuovo Congresso democratico offrirà alla Casa Bianca per cambiare il corso a Baghdad. Altri hanno citato il piano di tripartizione dell’Iraq presentato dal senatore democratico Joe Biden, anche se questa idea è stata rigettata dalla Commissione Baker, oltre che dal nuovo Parlamento iracheno. Le indiscrezioni intorno a questo piano Baker, a cui ha lavorato anche Gates, parlano di una completa inversione di rotta nella tattica per raggiungere gli obiettivi mediorientali posti dalla Casa Bianca. L’idea alla base del progetto Baker per risolvere la crisi irachena è quella classica della destra americana: abbandonare moderatamente i sogni di rivoluzione democratica e provare a coinvolgere l’Iran e la Siria, cioè due dei paesi dell’asse del male. Se la Casa Bianca decidesse di abbracciare in toto questo piano segnerebbe la fine della dottrina Bush, ecco perché oggi questa eventualità resta improbabile, anche se possibile. Non ci sarà alcun ritiro delle truppe dall’Iraq e, per questo, Bush ieri ha voluto rassicurare gli iracheni, dicendo loro di non avere paura perché gli americani staranno sempre dalla parte del progresso democratico. Ai nemici dell’America, Bush ha detto “di non essere contenti e di non confondere la nostra democrazia con una mancanza di volontà”, perché questa volontà di vittoria – ha precisato Bush – ce l’hanno anche i leader democratici.
In campagna elettorale Rumsfeld è stato al centro delle critiche soprattutto da parte dei repubblicani, oltre che dei liberal. Questa volta non sono stati soltanto gli opinionisti neoconservatori a chiedere le sue dimissioni, come ormai ripetono dall’inizio della guerra in Iraq, e in alcuni casi anche da prima,  per la scelta del Pentagono di preparare l’intervento militare “on the cheap”, al risparmio e con poche truppe. Molti dei candidati repubblicani hanno chiesto alla Casa Bianca di sostituire Rumsfeld, aggiungendo la loro voce a  quasi tutti gli opinionisti di destra e di sinistra e finanche dei giornali militari.
Per conoscere le idee del suo possibile sostituto, Bob Gates, è utile ricordare la sua presidenza, con Zbigniew Brzezinski, della task force del Council on Foreign Relations che nel 2004 ha suggerito in un rapporto “un nuovo approccio sull’Iran”. Le conclusioni di quel volume sono utili a capire che tipo di apporto darà Gates al gabinetto di guerra. Quel testo sosteneva l’idea di avviare un processo di confronto con Teheran: “E’ nell’interesse degli Stati Uniti coinvolgere in in modo selettivo l’Iran per promuovere la stabilità nella regione”, senza per questo dimenticare “il deficit democratico che riguarda l’intero medio oriente”. La politica suggerita da Gates sull’Iran è simile a quella kissingeriana sulla Cina e sull’Urss: ricostruire le relazioni ed esplorare le aree di interesse comuni, opponendosi però a certi aspetti interni e internazionali della politica iraniana. Non una proposta di “un grande accordo” con l’Iran, come hanno suggerito altri, ma il tentativo di ottenere progressi piccoli ma incoraggianti, agitando meno il bastone e offrendo più carote, promuovendo la democrazia ma non il cambio di regime. Il problema di questa impostazione è individuato dallo stesso Gates nel testo introduttivo: “I precedenti tentativi di coinvolgere l’Iran sono falliti e quindi anche una politica oculata potrà essere respinta dall’ostinazione di questo regime”.

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