Il giorno dopo le elezioni di metà mandato che cosa succederà alla dottrina Bush e ai suoi protagonisti? La prima risposta che viene in mente è: nulla o giù di lì. Un’analisi più approfondita deve necessariamente partire dall’esito del voto del 7 novembre e dalla successiva portata di questo risultato elettorale, calandolo nella storia e nella tradizione politica americana. Se il voto di midterm anziché martedì prossimo si tenesse oggi, il Partito repubblicano di George W. Bush perderebbe più o meno una ventina di seggi alla Camera e quattro o cinque al Senato. Questa previsione – unanime secondo i sondaggi, ma contestata da Karl Rove e dai repubblicani – porterebbe a un cambio di maggioranza alla Camera e i democratici a guidare la House of Representatives con un margine di 5 o 6 voti. Al Senato ci sarebbe un ridimensionamento del vantaggio repubblicano, oggi di cinque seggi più il voto del vicepresidente Dick Cheney in caso di parità, ma non fino al punto da ribaltare la sua leadership. Se i sondaggi fossero confermati, avremmo un’importante vittoria politica dei democratici che si tradurrebbe però in una maggioranza esigua alla Camera e in un nulla di fatto al Senato, una specie di pareggio istituzionale con un ramo del Congresso ai repubblicani e l’altro ai democratici. Non una novità, questa, ma un caso comune nella storia politica americana, anche recente.
Non sarebbe una novità nemmeno avere un Congresso guidato dal partito che non esprime il presidente. Ronald Reagan, e poi Bush padre, hanno vinto la Guerra fredda con la Camera, e per un periodo anche il Senato, guidati dai democratici. Bill Clinton è intervenuto nei Balcani, malgrado il Congresso fosse a guida repubblicana e, come prescrive la tradizione politica conservatrice, certo non entusiasta dell’intervento all’estero per fermare un dittatore nazionalista. Lo stesso Bush junior ha governato i primi suoi due anni di presidenza con un Senato democratico, per effetto del mini ribaltone compiuto da un senatore repubblicano. L’eccezione a questa regola dell’alternanza politica tra Casa Bianca e Congresso fin qui è stata proprio quella di Bush junior. Degli ultimi cinque presidenti americani, Bush è stato l’unico ad aver vinto le sue prime elezioni di metà mandato e poi anche la rielezione, aumentando ogni volta la propria maggioranza al Congresso, sia alla Camera sia al Senato. Reagan, per fare un esempio di presidente molto popolare, è uscito sconfitto dalle sue prime elezioni di metà mandato del 1982 perdendo ben 26 seggi alla Camera (ma guadagnandone uno al Senato). Clinton è uscito con le ossa rotte dalle mid-term elections del 1994, perdendo otto seggi al Senato e addirittura 54 alla Camera. In entrambi i casi i due presidenti, come prescrive la Costituzione, hanno continuato a guidare il paese esattamente come avrebbero fatto con una maggioranza a loro più favorevole, specie sulle questioni di politica internazionale e di sicurezza nazionale. Anzi c’è chi sostiene che il sistema funzioni meglio quando la Casa Bianca è di un colore e il Congresso di un altro, come in alcuni dei migliori momenti dell’era Reagan e Clinton, perché una volta che si raggiunge l’accordo politico tra i due partiti si procede senza intoppi per due anni. La controprova di questo ragionamento è, di nuovo, quella di Bush e del suo recente Congresso repubblicano.
In teoria, con questa maggioranza, i repubblicani avrebbero potuto fare ciò che volevano, eppure con l’eccezione delle questioni di sicurezza nazionale e delle tasse, la Casa Bianca non è riuscita a far passare le riforme della previdenza sociale e del codice fiscale, anzi ha dovuto firmare una legge sull’immigrazione ben diversa dall’idea bushiana di legalizzare temporaneamente i clandestini che lavorano negli Stati Uniti.
Negli ultimi cinquant’anni di elezioni di metà mandato, inoltre, il partito del presidente ha sempre perso, in media, tre seggi senatoriali in ciascuna delle 14 elezioni e, infine, dal 1950 a oggi mai un presidente è stato capace di conquistare seggi al Senato al suo sesto anno in carica, cioè alle sue seconde elezioni di mid-term.
Tutto ciò per dire che comunque vadano le elezioni di martedì, anche nel caso possibile di una doppia maggioranza democratica sia alla Camera sia al Senato, ci troveremmo di fronte a un tradizionale avvicendamento alla fine del secondo mandato e non comporterebbe alcun automatico cambio di politica della Casa Bianca. La Costituzione americana è stata progettata in modo da distinguere i ruoli del presidente e del Congresso, tanto che le elezioni dell’organo legislativo sono sfalsate rispetto a quelle presidenziali, con i senatori che vengono eletti ogni sei anni, il presidente ogni quattro e i deputati ogni due. Chi decide gli eventuali cambi di linea politica è solo il presidente, non le elezioni di metà mandato, a meno che non siano una valanga politica tale da travolgere la Casa Bianca. L’analista politico Michael Barone, autore del fondamentale “The Almanac of American Politics”, ha spiegato martedì sul WSJ e sul Foglio che, per quanto potrà essere larga la vittoria democratica del 7 novembre, difficilmente potrà avere le stesse profonde conseguenze che ebbero quelle del 1874, del 1894, del 1939 e del 1994, gli unici casi in cui le elezioni di metà mandato hanno avuto un risultato così clamoroso da cambiare il corso della politica americana. Non a caso gli stessi sondaggi che segnalano la vittoria democratica di martedì danno vincenti i candidati repubblicani alla presidenza del 2008, contro qualunque candidato democratico.
Vedremo che cosa succederà, ma intanto va ricordato che l’eventuale prossima maggioranza democratica potrà incidere sulla politica estera del presidente essenzialmente in due modi. Il primo è quello, improbabile, di un taglio dei finanziamenti agli interventi militari in Iraq o altrove. Con i soldati americani nelle zone di guerra è praticamente impossibile che accada una cosa del genere, sebbene il deputato di Harlem e dell’Upper West Side di New York, Charles Rangel, prossimo presidente della potente Commissione Ways and Means in caso di vittoria democratica alla Camera, abbia detto che potrebbe proporre di bloccare i finanziamenti alle operazioni in Iraq. Rangel è stato costretto a smentire la proposta, su cui i repubblicani hanno subito provato ad attaccarsi per dipingere i democratici come deboli e inaffidabili sulla sicurezza nazionale. L’episodio dimostra due cose, la volontà dell’ala liberal del Partito democratico di provocare un cambiamento di rotta della politica estera e di sicurezza e, allo stesso tempo, l’impossibilità di ottenerla. L’eccezione è del 1973, quando il Congresso ha tagliato i finanziamenti alla guerra in Vietnam. Ma, come ha spiegato ieri Robert Kagan sul Washington Post, “raramente le elezioni congressuali hanno effetti sulla direzione della politica estera americana”. Ai democratici, dunque, resta sostanzialmente un solo strumento politico a disposizione contro Bush, qualora guidassero il prossimo Congresso, e il peso di questo strumento cambia a seconda che controllino in futuro entrambi i rami o, come sembra più probabile, soltanto la Camera.
Un Congresso democratico potrebbe contestare l’interpretazione estensiva che l’attuale Casa Bianca ha dato dei poteri presidenziali in tempo di guerra. Tutto il dibattito di questi mesi su ogni singolo aspetto della sicurezza nazionale e sulla guerra al terrorismo – gli interrogatori dei nemici combattenti, le carceri segrete della Cia, Guantanamo, i processi nelle commissioni speciali, i programmi di controllo delle telefonate provenienti dall’estero e così via – in realtà sono stati la semplificazione politica e giornalistica di una discussione costituzionale sui poteri presidenziali previsti dalla Costituzione. La Casa Bianca sostiene che in tempo di guerra il presidente dispone di tutti i poteri necessari a difendere i suoi cittadini, come spiega – nel nuovo libro “War by other means” – il professore John Yoo, il docente a Berkeley che da consulente legale della Casa Bianca ha progettato la cornice giuridica della guerra al terrorismo post 11 settembre. Il Partito democratico, invece, crede che ciascuno di questi provvedimenti straordinari debba essere deciso volta per volta dal Congresso. I democratici hanno trovato spesso conforto alla loro tesi nelle decisioni della Corte suprema, che in alcuni casi ha rimandato le scelte di Bush alla decisione sovrana del Congresso. E’ proprio su questo punto che l’esito delle elezioni di metà mandato potrebbe influire sulla politica estera e di sicurezza ideata da Bush. Fin qui la Casa Bianca, disponendo di una solida maggioranza in entrambe le Camere, ogni volta che è stata costretta a interpellare l’organo legislativo ha trovato un ambiente favorevole alle proprie tesi, ma non sarebbe più così se i democratici conquistassero la maggioranza al Congresso. Su questi temi Bush rischia di diventare un’anatra zoppa soltanto nell’ipotesi in cui i democratici vincessero sia la Camera sia il Senato, perché in questo caso la pressione politica dei democratici sarebbe molto forte. Nell’ipotesi in cui conquistassero soltanto la Camera, i democratici avrebbero parecchie difficoltà a indebolire il forte ruolo istituzionale che il presidente ha nel sistema costituzionale americano.
E’ anche vero, però, che la Camera è l’organo congressuale che, per prassi costituzionale, ha il potere esclusivo di mettere il presidente in stato d’accusa, avviando il procedimento di impeachment. L’ala radicale del partito democratico vorrebbe processare Bush, o magari soltanto censurarlo, proprio per aver abusato dei poteri presidenziali, ma i centristi del partito sono contrari a questa ipotesi e ogni politico democratico con aspirazioni presidenziali si terrà alla larga da scelte di questo tipo. Non solo. Questo turno elettorale porterà a Washington un numero ben più ampio di cosiddetti “blue dogs”, i deputati democratici molto conservatori sulla sicurezza nazionale (e sulle questioni sociali). Anzi, molto probabilmente saranno stati loro ad aver strappato i collegi repubblicani necessari a ottenere la maggioranza al Congresso. Senza dimenticare il caso di Joe Lieberman, il senatore uscente del Connecticut sconfitto alle primarie democratiche dello scorso agosto perché accusato dall’ala radicale del partito di avere le stesse posizioni di George Bush sull’Iraq e sulla guerra al terrorismo. Lieberman s’è candidato ugualmente, ma da indipendente. Ora tutti i sondaggi lo danno in vantaggio tra i dieci e i dodici punti rispetto all’ex compagno di partito Ned Lamont. Se rieletto, Lieberman si iscriverà comunque al caucus democratico, ma la sua posizione simil bushiana ne esce rafforzata, e i democratici si potrebbero trovare nell’infelice situazione di dover dipendere, al Senato, dal voto decisivo del senatore “pro war” che avevano deciso di cacciare in favore di un pacifista.
Per tutte queste ragioni storiche, costituzionali e politiche, in caso di sconfitta alle elezioni di martedì, George W. Bush non dovrebbe subire pressioni molto diverse da quelle già note e sperimentate in questi anni. La sua presidenza, la sua politica estera, la sua guerra al terrorismo, la sua dottrina di espansione della libertà e della democrazia contro il totalitarismo islamista continueranno sullo stesso solco di prima, a meno che non sia lui stesso a decidere di cambiare rotta. Prevedere le mosse di Bush è difficile, ma se c’è un presidente americano che verrà ricordato per non aver mai vacillato sulla strategia globale, ma soltanto aggiustato la tattica, anche di fronte a crisi e critiche senza precedenti, questo è proprio Bush. La cosa più facile è che Bush continui a perseguire la sua “freedom agenda” in medio oriente, agitando il bastone nei confronti delle mire nucleari dell’Iran e della Corea del nord, offrendo la carota della carta diplomatica agli alleati europei. Saranno quattro i momenti chiave dei prossimi mesi per poter valutare che cosa vorrà fare Bush degli ultimi due anni di sua presidenza e per capire, quindi, se le continue difficoltà irachene e l’eventuale sconfitta di martedì lo avranno convinto a ritrattare la dottrina da lui stesso elaborata dopo l’11 settembre. Bisognerà tenere d’occhio che cosa accadrà a tre persone e, poi, non perdere di vista i movimenti intorno alle elezioni presidenziali del 2008.
Donald Rumsfeld è l’architetto dell’ultima rivoluzione high tech dell’esercito americano, ben descritta da Max Boot nel suo nuovo saggio “War Made New” che racconta la storia dell’influenza delle tecnologie sul modo di combattere le guerre. Quella di puntare meno sugli uomini, meno sui mezzi pesanti e più sulle armi tecnologiche in grado di affrontare le nuove minaccie militari è l’idea fissa di Rumsfeld dal primo giorno in cui è entrato al Pentagono, un’idea peraltro contenuta anche nelle proposte di John Kerry. Le campagne militari in Afghanistan e in Iraq hanno mostrato l’efficacia ma anche i limiti di questa trasformazione dell’esercito americano, oggi in grado di invadere un paese e di destituire un tiranno in poche settimane, ma incapace di mantenere la sicurezza proprio perché punta sulla leggerezza della presenza militare. Rumsfeld ha insistito su questa sua idea, anche davanti alle critiche dei vertici militari e degli analisti neoconservatori, i quali fin dal primo giorno di progettazione della campagna irachena gli hanno contestato che le guerre, quando si fanno, non si combattono “on the cheap”, al risparmio e con pochi uomini. Rumsfeld è al centro di un fuoco concentrico non solo per il caos del dopo Saddam, ma anche per lo scandalo di Abu Ghraib, per le tecniche di interrogatorio, per Guantanamo. I liberal chiedono un giorno sì e l’altro pure le sue dimissioni, anche se i primi ad avanzare la richiesta sono stati proprio gli editorialisti neoconservatori. Molti candidati repubblicani continuano a chiedere a Bush di sostituire Rumsfeld, ma proprio l’altro ieri il presidente ha affermato che non lo farà e che manterrà al suo fianco sia Rumsfeld sia Cheney fino al suo ultimo giorno di presidenza nel gennaio 2009. Dovesse cambiare idea, magari pressato dal nuovo Congresso democratico, sarebbe certamente un segnale di ritirata. Un’altra persona da guardare è John Bolton, l’attuale ambasciatore all’Onu che è il simbolo della risolutezza americana contro i paesi dell’asse del male. La nomina di Bolton non è stata ancora confermata dal Senato. La questione dovrà essere affrontata dal prossimo Congresso dove Bolton troverà un terreno più ostile. Se Bush decidesse di non avviare un altro scontro al Senato su Bolton e quindi puntare su qualcun altro, sarebbe un altro segnale di inversione di marcia, ma anche questa, oggi, sembra un’ipotesi improbabile. Anzi c’è già chi pensa che alla Casa Bianca stiano studiando un nuovo stratagemma costituzionale per confermare Bolton senza passare dal Senato.
Probabilmente, però, la persona da guardare con più attenzione per capire le intenzioni della Casa Bianca nei prossimi due anni è un esterno all’Amministrazione, James Baker. L’ex segretario di stato di Bush senior è uno dei massimi esponenti politici favorevoli a un approccio realista alle questioni internazionali: è stato lui a consigliare di non destituire Saddam nel 1991 e a convincere i repubblicani dell’erroneità di un intervento militare in Bosnia e poi in Kosovo. Baker, insomma, è l’esatto opposto ideologico della dottrina Bush. Da settimane si parla di un suo rapporto bipartisan sull’Iraq, non ancora ultimato, che sarà consegnato alla Casa Bianca dopo le elezioni. L’idea di Baker sembra essere quella di abbandonare ogni sogno democratico in medio oriente, di ritirare le truppe e di favorire il coinvolgimento di Iran e Siria nella gestione della crisi. Un approccio, di nuovo, opposto a quello elaborato da Bush dall’11 settembre a oggi. Questa idea di coinvolgere Iran e Siria, due stati del cosiddetto asse del male, piace all’establishment della politica estera americana, sia esso repubblicano o democratico. C’è chi crede che questa di Baker sia l’ultima via d’uscita a disposizione di Bush per non lasciare la Casa Bianca con il caos iracheno ancora irrisolto e dunque per non pregiudicare il ricordo futuro dei suoi otto anni a Washington. Qui, su questo preciso punto, sull’adozione del rapporto Baker, si vedrà se Bush avrà cambiato strategia e abbandonato la dottrina democratica in medio oriente. I giornali liberal scommettono su questa ipotesi, ma voci vicine alla Casa Bianca dicono che il rapporto non farà cambiare idea a Bush. Come tutti i presidenti a fine mandato, Bush ora ha il problema di consolidare la sua eredità politica. La domanda è: la consolida di più rinnegando i suoi primi sei anni, oppure individuando un candidato alla Casa Bianca che dal 2009 continuerà sulla sua strada?
3 Novembre 2006