Camillo di Christian RoccaPiù truppe, per fare cosa?

Milano. E’ ormai certo che a gennaio George W. Bush annuncerà un nuovo piano militare per l’Iraq che avrà come punto centrale l’invio a Baghdad di altri 30/50 mila soldati americani. Sembra altrettanto sicuro che la strategia militare della Casa Bianca, elaborata in questi giorni di frenetici vertici con esperti militari e civili, rigetterà le indicazioni della commissione Baker, secondo cui Washington dovrebbe accelerare l’addestramento dell’esercito iracheno e prepararsi a un disimpegno non solo militare, ma anche politico attraverso il coinvolgimento di Iran e Siria. Più probabile che Bush e il nuovo segretario alla Difesa, Bob Gates, che ha preso servizio ieri mattina, prenderanno spunto dalle conclusioni di un altro rapporto, anticipato dal Foglio la settimana scorsa, scritto dall’analista dell’American Enterprise Institute Frederick Kagan e dall’ex capo di stato maggiore dell’esercito Jack Keane.
I due strateghi militari propongono di aumentare le truppe in Iraq, ma soprattutto di cambiare la missione, ovvero di mutare la natura stessa della presenza americana in Iraq. Oggi i soldati della coalizione internazionale di stanza in Iraq stanno perlopiù chiusi dentro le basi e forniscono attività di supporto, addestramento e sostegno al nuovo esercito iracheno. Ogni volta che gli americani si impegnano in operazioni di riconquista di città, zone o quartieri caduti in mano a terroristi o ai nostalgici del dittatore, subito dopo la liberazione – come è accaduto a Fallujah, a Samarra e due volte a Baghdad – passano il bastone di comando al governo iracheno, il quale però è ancora incapace di mantenerne il controllo. Così, dopo poco tempo, i ribelli e i nemici dell’Iraq libero riconquistano le posizioni iniziali. Alla base della strategia di Kagan e Keane c’è la convinzione che la mancanza di sicurezza nelle strade finisca per imbrigliare il processo politico, fino a condurlo al fallimento. Da qui l’idea di ripulire Baghdad e la provincia di Al Anbar, di tenerne direttamente e militarmente il controllo e di avviare seduta stante l’attività di ricostruzione, provando a infondere fiducia tra la popolazione e a garantire la sicurezza ai cittadini.
L’analista militare Ralph Peters, sul New York Post di ieri, non è del tutto convinto delle reali intenzioni di Washington. Teme che l’idea di inviare più truppe sia soltanto una nuova moda dei centri studi e che non segnali una necessaria e reale inversione di rotta e una volontà strategica di combattere sul serio. Il generale Keane, dopo aver definito “spazzatura” la posizione di chi crede che l’esercito americano non possa sconfiggere i terroristi iracheni, ha detto chiaramente in tv che questo dovrà essere l’obiettivo e che ci vorranno mesi, se non un anno, per ripulire e stabilizzare Baghdad, prima di passare alle altre zone. Secondo Peters, 40 mila uomini in più potranno fare la differenza, ma soltanto se avranno una missione chiara, strumenti adeguati, un approccio di “tolleranza zero” e se i politici a Washington saranno in grado di sostenere queste dure operazioni militari senza esitazioni di fronte alle prevedibili critiche della stampa e al probabile aumento delle vittime.
L’Herald Tribune svela il mito di Svengali
Sono favorevoli all’invio di più truppe John McCain e Rudy Giuliani e, con qualche caveat, anche il leader democratico al Senato, Harry Reid, e il presidente della Commissione intelligence della Camera, Silvestre Reyes. Sono contrari, invece, Hillary Clinton e l’ex segretario di stato Colin Powell. La mossa di Hillary, considerata una falca sulle questioni irachene, sembra dettata dalla necessità di ammorbidire la sua posizione in vista delle primarie del Partito democratico. Il caso Powell è diverso. Ieri l’Herald Tribune, in una column di Richard Bernstein, ha smontato il mito di Svengali affibbiato ai neoconservatori, cioè l’idea che un gruppo di intellettuali malvagi – esattamente come il personaggio reso famoso da un romanzo di George du Maurier – abbia dirottato la politica estera americana costringendo con l’inganno Bush, Rumsfeld e Powell a compiere azioni che non avrebbero voluto fare. Bernstein ha ricordato come la stessa cosa non sia stata detta ai tempi della guerra del Kosovo, anch’essa sostenuta dai neoconservatori. E ha ricordato che le prove delle armi di Saddam sono state presentate all’Onu da Powell, non dai neocon. Domenica mattina Powell ha detto di essere contrario all’invio di altre truppe, eppure porta il suo nome la “dottrina Powell della forza schiacciante”, ovvero l’idea – poi rigettata da Rumsfeld – che le guerre si combattono con un’enorme sproporzione di forze e di risorse rispetto al nemico.

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