La nuova speaker della Camera di Washington, Nancy Pelosi, ieri mattina ha detto che la maggioranza di centrosinistra uscita vincitrice alle elezioni di metà mandato, e di cui lei è la leader, non negherà a George W. Bush i soldi necessari a finanziare la sua nuova strategia irachena che, tra le altre cose, prevede l’invio di 21.500 soldati, oltre a mantenere quelli già impegnati nel teatro di guerra. Pelosi e il Partito democratico hanno sostenuto fin dal 2003 quella che in Italia viene chiamata “la guerra di Bush”, autorizzando l’uso della forza militare e riaffermando la dottrina del “regime change” decisa negli anni di Bill Clinton, con il voto unanime di tutti i big del partito e di tutti i possibili candidati alle presidenziali del 2008, da Hillary Clinton a John Kerry, da John Edwards a Ted Kennedy (Barack Obama, contrario all’intervento, non era stato ancora eletto al Senato).
Col passare degli anni, quella convinta adesione alle cosiddette “guerre preventive di Bush” si è andata affievolendo, ma mai del tutto e certamente non al punto di negare il finanziamento ai soldati americani. Ogni volta che c’è stato bisogno di mettere mano al portafoglio per i soldati impegnati in Afghanistan e in Iraq, e le volte sono state parecchie, i voti a favore sono stati unanimi, 100 senatori a 0, a differenza delle pantomime a cui abbiamo assistito nel Parlamento italiano. Ancora adesso, con la crescente impopolarità della guerra, nessuno ha mai pensato di tagliare i fondi alle truppe. Il dubbio semmai era sui soldi destinati a finanziare l’ulteriore invio di soldati. Pelosi ha detto che i soldi per i nuovi connazionali in pericolo all’estero non mancheranno, mostrando tutta la differenza tra un paese serio e uno no.
20 Gennaio 2007