Camillo di Christian RoccaRudy guida i "metro-republicans" con sette minuti di vantaggio

Milano. Rudy Giuliani è un conservatore o una quinta colonna liberal dentro il Partito repubblicano? La sua è un battaglia persa prima ancora di cominciare oppure da leader dei “metro-republicans” è addirittura in grado di cambiare la geografia politica americana? Si è aperto un gran dibattito intorno alla figura politica dell’ex sindaco di New York, oggi semi-ufficialmente candidato alla Casa Bianca 2008, e sul fatto che in ambito conservatore i presidenziabili provengano da grandi città, da stati di sinistra e siano beniamini della sofisticata stampa liberal del nord-est. Tra tutti, quello di Giuliani è il caso più eclatante. L’idea prevalente, fino a qualche settimana fa, era che non fosse un vero conservatore o, perlomeno, che non lo fosse abbastanza da riuscire a vincere le primarie repubblicane, dove contano moltissimo i voti della destra religiosa. Contro Giuliani giocano le sue posizioni etico-sociali: pro-aborto, favorevoli ai matrimoni gay e a una regolamentazione del porto d’armi. Anche la sua vita privata pareva un ostacolo: tre matrimoni, due divorzi, una convivenza a casa di una coppia gay, travestimenti da donna alle parate dell’orgoglio omosessuale. Nei suoi discorsi, inoltre, non si sente mai la parola Dio, anzi tra i suoi avversari c’è chi ricorda che l’unica volta che l’ha pronunciata pubblicamente era per fare una battuta.
Così Tony Perkins, presidente del potentissimo Family Research Council, ha paragonato Giuliani “all’inquinamento sul fiume Potomac”, mentre l’ex leader repubblicano alla Camera, Tom DeLay, ha detto che non potrà mai votare per chi è favorevole all’aborto. “Non va da nessuna parte, non è conservatore né eleggibile, perlomeno come candidato repubblicano”, ha scritto un editorialista del reaganiano Human Events. Eppure l’ex sindaco di New York resta saldamente in testa a tutti i sondaggi tra gli elettori repubblicani e settimana dopo settimana consolida la sua posizione. Come sia possibile è l’argomento di questi giorni a Washington. Chi è scettico sulle sue potenzialità crede che il vantaggio sia dovuto alla popolarità e al fatto che soltanto il 16 per cento degli interpellati sa che l’ex sindaco è favorevole all’aborto. Altri invitano a non tenere conto dei sondaggi, anche perché nel febbraio 2003, un anno e mezzo prima del voto 2004, in testa tra i democratici c’era Joe Lieberman, poi arrivato in fondo alle primarie e due anni dopo addirittura costretto a lasciare il partito. In ogni caso è ancora troppo presto e va ricordato che Bill Clinton ha annunciatto la sua candidatura nell’ottobre 1991, tre mesi prima delle primarie.
Assieme ai sondaggi cresce anche il fronte dei conservatori pro Giuliani, dalla Fox News di Rupert Murdoch che non dimentica mai di chiamarlo “the America’s mayor” al centro studi newyorchese, Manhattan Institute, che in caso di elezioni di Giuliani sarà ciò che l’American Enterprise, la Brookings e l’Heritage sono stati per Bush, Clinton e Reagan. La tesi è che Giuliani sia il meglio del mondo conservatore: sulle tasse, sul bilancio, sul crimine, sui giudici, sui voucher scolastici, sul welfare. Lo sostengono il pro business Wall Street Journal, la social-conservative National Review e il neoconservatore Weekly Standard, quest’ultimo convinto che i “metro-republicans” guidati da Giuliani potranno ribaltare la geografia politica degli ultimi cicli elettorali e magari conquistare o essere competitivi a New York, in New Jersey, in California, Michigan e Pennsylvania.
John Podhoretz e Bill Kristol suggeriscono a Giuliani di rassicurare la destra religiosa promettendo di nominare giudici federali che si atterranno al testo della Costituzione, invece che cercare di innovarla. Giuliani ha fatto esattamente questo, ricordando di aver lavorato al dipartimento di Giustizia reaganiano insieme con John Roberts e Antonin Scalia, giudici che ammira. A differenza dei suoi concorrenti repubblicani John McCain e Mitt Romney, Giuliani non rincorre i social-conservative, i quali malgrado le differenze lo rispettano e gli riconoscono capacità e risolutezza contro la criminalità. C’è chi ricorda che nel 1995 Giuliani cacciò Yasser Arafat da un party dell’Onu e che l’11 settembre rifiutò 10 milioni di dollari da un esponente della famiglia reale saudita, ma è stato l’opinionista del Washington Post, George Will, a spiegare l’appeal di Giuliani: “Al momento della scelta la gente si porrà la domanda dei 7 minuti. Scenario da incubo, siete il consigliere per la sicurezza nazionale. Venite svegliati nel pieno della notte. Avete 3 minuti per ricevere i dettagli di un imminente attacco agli Stati Uniti. Il presidente, da voi avvisato, ha 4 minuti per rispondere. E ora: chi è il candidato che si adatta meglio alla domanda dei 7 minuti?”.

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