Camillo di Christian RoccaPulitzer a Cormac McCarthy

New York. Cormac McCarthy, lunedì sera, ha vinto il Premio Pulitzer della Columbia University per il suo ultimo e apocalittico romanzo, “The Road”. Philip Roth, ieri sera, sempre alla Columbia, ha ricevuto il Premio Grinzane Cavour per “Everyman”. Capita, ogni tanto capita, che i premi letterari vadano a libri formidabili e non si risolvano in eventi mondani dove la solita combriccola editoriale si autoassegna riconoscimenti, baci, grandi applausi e poi segue buffet. Può capitare, dunque, che il Pulitzer sia una cosa diversa dal Nobel, ridotto più che a un premio da assegnare a una pena da comminare.
Il Pulitzer a McCarthy è arrivato pochi giorni dopo che Oprah Winfrey selezionasse “The Road” per il popolarissimo “Oprah’s Book Club”, mentre il premio a Roth segue di un mese il celebre Pen/Faulkner Award. Alla Columbia, Roth ha tenuto una lecture su Primo Levi, mentre lunedì sera l’editore americano di McCarthy non era ancora riuscito a contattarlo per comunicargli la vittoria. Il Pulitzer è andato anche a un bel saggio sul fondamentalismo islamo-terrorista “The Looming Tower” di Lawrence Wright, alla ricostruzione storica del rapporto tra la stampa e il movimento dei diritti civili, “The Race Beat” di Gene Roberts e Hank Klibanoff, alla biografia del controverso reverendo e intellettuale abolizionista dell’Ottocento, Henry Ward Beecher, alle poesie di Natasha Trethewey, alla piece teatrale “Rabbit Hole” e al nuovo disco, “Sound Grammar”, della leggenda del free jazz Ornette Coleman.
Il Pulitzer, però, è soprattutto il più prestigioso premio giornalistico d’America, riservato ai quotidiani. Ogni anno è tempestato di polemiche per il suo pregiudizio liberal e perché eccede nel distribuire premi ai grandi giornali delle grandi città, i quali però sono anche quelli che hanno a disposizione più soldi, più lettori e più talenti. Un paio d’anni fa il premio fu scosso dalla decisione del New York Times di non riconoscere il Pulitzer vinto nel 1932 dal suo corrispondente da Mosca, Walter Duranty, uno capace di scrivere articoli filostalinisti “disgustosi” e “vergognosi”, secondo la definizione dell’attuale direttore Bill Keller. Duranty scriveva che i processi stalinisti si basavano su “confessioni veritiere” e che i lavoratori sovietici celebravano la “libertà” aumentando la produzione industriale durante le festività religiose. Eppure vinse il Pulitzer, soprattutto per i suoi reportage del 1931 sulla magnificenza dei piani economici quinquennali, ben corredati da interviste benevole ai leader sovietici. In realtà gli articoli più “vergognosi” sono successivi, del 1932-33, quando Duranty lodò la carestia forzosa che uccise dieci milioni di ucraini e bollò come propagandisti antisovietici chiunque non riconoscesse la straordinaria politica agraria di Stalin.
I Pulitzer di quest’anno invece sembrano immuni da polemiche. Nessun riconoscimento alle storie di guerra o di sicurezza nazionale, su cui Washington Post e New York Times hanno puntato molto, mentre è stato dato grande spazio a piccoli quotidiani di diverse città di media grandezza: allo staff dell’Oregonian di Portland per gli scoop, a Brett Blackledge del Birmingham News, giornale dell’Alabama, per le inchieste e poi una serie di riconoscimenti a giornalisti del Miami Herald, dell’Atlanta Journal-Constitution, del Boston Globe, del Sacramento Bee. I grandi giornali sono andati male, un solo premio a testa per il Los Angeles Times e per il New York Times, mentre il Washington Post non ne ha vinto nessuno, malgrado avesse cinque finalisti. Il direttore del Post ieri ha provato ad accaparrarsene uno, annunciando che quest’estate farà parte della grande squadra del Post la cronista del Miami Herald fresca vincitrice del premio. L’unico grande giornale a essere andato bene è stato il Wall Street Journal, vincitore di due premi. Uno per il modo in cui ha raccontato lo sviluppo del capitalismo cinese. L’altro, il più importante, per il “servizio pubblico” reso in occasione di una serie di articoli finanziari che hanno svelato lo scandalo della pratica, adottata dai vertici di parecchie grandi imprese, di retrodatare le stock options per i top manager. L’inchiesta del Journal ha avviato indagini federali contro 140 corporation, provocando le dimissioni di 70 alti dirigenti e il processo per una decina di manager. Insomma l’opposto di quanto avviene in Italia, dove è considerato giornalismo d’inchiesta la pubblicazione integrale dei verbali ricevuti da magistrati amici.

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