New York. D’accordo, c’è Bill. Ma il Karl Rove di Hillary Clinton si chiama Mark Penn. E’ lui l’uomo da seguire. Non solo perché, dopo la candidata, è la persona più importante della campagna Hillary 2008, ma anche perché è il sondaggista americano del Cav., il misterioso consulente elettorale che, tra gli sberleffi della stampa ulivista, prima delle scorse elezioni italiane era stato l’unico a prevedere la sostanziale parità tra centrodestra e centrosinistra. Mark Penn, dunque, 53enne con faccia da bambino, amico del neoconservatore David Brooks e dell’internazionalista liberal Peter Beinart. Ma, soprattutto, dotato di un portafoglio clienti che fa rabbrividire il mondo liberal di Washington. Nel 1981 è stato dietro la campagna di rielezione di uno dei primi ministri più di destra di Israele, Menachem Begin, aiutandolo a definire la sua premiership intorno al bombardamento preventivo della centrale nucleare di Osirak, in Iraq. Penn ha lavorato per Tony Blair nel 2004 e, più in generale, per quasi tutte le figure politiche della sinistra anglosassone favorevoli alla destituzione di Saddam Hussein: da Joe Lieberman nel 2004, al gruppo centrista Democratic Leadership Council. Penn sostiene da anni che “i democratici devono neutralizzare il gap sulla sicurezza, perché gli elettori indecisi difficilmente sceglieranno un candidato di sinistra se, riguardo alle questioni militari e di protezione nazionale, questi non è in grado di offrire una visione che possa competere con quella repubblicana”. In passato, è la tesi di Penn, i democratici come Bill Clinton sono riusciti a neutralizzare il vantaggio della destra sul crimine e sulla riforma dello stato sociale, oggi i democratici devono essere forti sulla sicurezza nazionale e devono farsi sentire sull’economia. Lasciate stare le cose dette nei comizi, le risposte date nei dibattiti televisivi e i comunicati stampa: il modo migliore per intuire che tipo di presidente sarà Hillary o qualsiasi altro candidato alla Casa Bianca è andare a sbirciare tra il suo staff, nel giro di persone e di consiglieri che girano intorno e che si preparano, in caso di vittoria, a trasferirsi alla Casa Bianca. Hillary può contare sull’apporto di Bill e dello stretto giro clintoniano, a cominciare dall’eminenza grigia economico-finanziaria Robert Rubin, all’interventista democratico Richard Holbrooke per le questioni di politica estera, al fedele consigliere politico Harold Ickes, al direttore della comunicazione Howard Wolfson, al mago dei finanziamenti elettorali Terry McAuliffe e al mastino di politica interna John Podesta. Si dice anche che Hillary si fidi molto, per le cose militari, dell’ex generale Jack Keane, che è l’ideologo dell’aumento delle truppe americane in Iraq al centro della nuova strategia bushiana a Baghdad. Nessuno di loro, però, è la persona chiave della sua campagna. Nessuno di loro sta 24 ore su 24 con lei e, tra quelli che non stanno con lei, nessuno di loro è Mark Penn, il vero stratega politico dietro ogni sua singola mossa. In prima linea c’è lo staff viaggiante, composto da sole donne. “Sono cattivissime”, dicono sconsolati i reporter al seguito, invidiosi del trattamento amichevole che, al contrario, ricevono i colleghi che seguono Obama. La capa è Huma Abedin, bella, misteriosa e glamorous capo dello staff hillariano, una che ha già scatenato intorno a sé una specie di culto. “Credo che abbia poteri speciali”, dice chi la conosce. Sempre al fianco di Hillary, Huma è il suo schermo e la sua prima protezione. Elegante e mai trafelata, malgrado i capannelli di sostenitori, gli interminabili lampi dei flash e la presenza delle guardie del corpo. Trentaduenne, di origine pakistana, musulmana, Huma è nata in America, ma ha vissuto in Arabia Saudita fino al ritorno negli Stati Uniti per frequentare l’università. “Avete visto Huma? – ha detto all’Observer l’ex stratega clintoniano James Carville – Quando appare è… mio Dio… toglie il fiato, è incredibilmente e formidabilmente splendida ed è anche maledettamente intelligente”. Tacchi a spillo, abiti di Oscar de la Renta, Prada e borse di Marc Jacobs, Huma è la prima consigliera di Hillary, soprattutto sulle questioni mediorientali, come conferma anche uno dei rivali di Hillary, il senatore repubblicano John McCain. Sua madre è una nota professoressa in Arabia Saudita, suo padre è stato uno studioso del dialogo interreligioso e un sostenitore dello scambio culturale tra occidente e oriente. Con Hillary e Huma viaggiano anche le due portavoci Jennifer Hanley e Jamie Smith, l’una interpreta la parte della poliziotta cattiva, l’altra di quella buona. Il risultato è il medesimo: l’accesso alla candidata è negato. A guidare la campagna, il cui quartier generale è nei sobborghi di Washington, formalmente è Patti Solis Doyle, sodale di Hillary dal 1991, da quando era consigliere speciale del presidente e della first lady. L’architetto della candidatura di Hillary, però, è Mark Penn. Formalmente è soltanto il pollster, il sondaggista. In realtà è lui che determina ogni mossa, a cominciare da quella più controversa: non aver chiesto scusa per il voto del 2002 con cui l’ex first lady ha autorizzato George W. Bush a invadere l’Iraq. E’ lui che ha costruito l’immagine un po’ arrogante di Hillary, puntando a far passare tra il pubblico il senso di inevitabilità della sua candidatura. E’ Penn il consigliere che tiene Hillary ancorata al centro e su posizioni moderate. Il momento successivo la sconfitta di Ségolène Royal, Penn si è affrettato a comunicare che “Hillary Clinton offre un tipo di scelta molto differente da quella in cui si sono trovati i francesi, Hillary è notoriamente riconosciuta come forte, intelligente e come leader. La sua esperienza dice che è pronta a vedere il paese cambiare grazie a una mano ferma, solida e sicura”. Penn è stato assunto alla Casa Bianca di Clinton da Dick Morris, il profeta della “triangolazione” con cui ha rieletto Bill nel 1996, ovvero l’adozione delle idee forti degli avversari e del puntare su questioni piccole e noiose, ma capaci di ricevere un sostegno bipartisan. Quando Morris è stato costretto a dimettersi, dopo essere stato scoperto a letto con una prostituta, Penn ha preso il suo posto (Morris ora è il più feroce critico di Hillary). Da allora, Penn è il genio del gruppo. Quando suggerisce qualcosa a Hillary, Hillary normalmente commenta “ma che cosa davvero intelligente, Mark”. Il giudizio, secondo il Washington Post, all’inizio del 2000 non è stato condiviso dal vicepresidente Al Gore, in vista della candidatura alla successione di Clinton contro il governatore del Texas, George W. Bush. Penn gli aveva spiegato che agli elettori piacevano le idee di Gore, ma che non gli piaceva Gore. Il vicepresidente pensava fosse necessario distaccarsi da Clinton, perché convinto che il paese fosse stanco della saga clintoniana. “Io non sono stanco di lui – gli disse Penn – e tu?”. Pochi giorni dopo, Penn fu licenziato da Gore e subito dopo assunto da Hillary per la campagna senatoriale a New York. E domani, Michela Brambilla? L’azienda di comunicazione di Penn è una delle più grandi di Washington, la quinta del mondo, impiega duemila persone, fa utili per 300 milioni di dollari l’anno. Tra i suoi clienti, politici a parte, ci sono giganti come Microsoft, At&t e Texaco. Penn lavora gratuitamente per Hillary, anche se da gennaio ad aprile il suo gruppo ha ricevuto 277 mila dolla
ri dalla campagna della senatrice, prevalentemente per i sondaggi. Penn lavora quasi esclusivamente a “Hillary 08”, dalla prima riunione di strategia delle sette e mezzo di mattina, fino alle due di notte. Gli avversari liberal della senatrice, come il mensile The Nation, denunciano il conflitto di interessi di Penn, che guida la campagna e continua a fare lobby e a gestire l’immagine di grandi imprese e aziende. Penn sostiene che il lavoro quotidiano, il day-by-day, è gestito dai dipendenti (a lui resta soltanto la Microsoft), ma c’è chi fa notare che nel 2000 Bush costrinse Karl Rove a vendere la sua piccola azienda di comunicazione, proprio per eliminare dubbi. C’è un’altra questione a inseguire Penn. La sua azienda è proprietaria di altre società di lobbing gestite da noti funzionari del Partito repubblicano, da Charles Black a Ed Gillespie a Robert Parker, a Wayne Berman a Mark McKinnon. I nomi potrebbero dire nulla, ma si tratta di un importante consigliere politico di almeno un paio di presidenti repubblicani nonché amico di Rove e consulente dell’iracheno Ahmed Chalabi, dell’ex presidente del Partito repubblicano, di un ex leader alla Camera, di uno dei più efficaci raccoglitori di fondi del partito e dell’ex consigliere per la comunicazione di Bush (oggi con John McCain). Tutti in qualche modo dipendenti dello studio Penn, stratega principe di Hillary e domani, chissà, anche di Michela Brambilla.
11 Maggio 2007