New York. La differenza tra il dibattito presidenziale dei candidati democratici della settimana scorsa in Carolina del Sud e quello dei repubblicani di giovedì nella Simi Valley californiana è che questi ultimi, i conservatori, riconoscono che c’è un nemico mortale, anzi più d’uno, e vogliono sconfiggerlo, mentre i democratici quasi non ne parlano e si preoccupano principalmente di tornare a casa dall’Iraq, senza particolare attenzione alle conseguenze del ritiro. Ci sono le eccezioni – il democratico Joe Biden ha un piano di ripartizione dell’Iraq e il bizzarro repubblicano-libertario Ron Paul si considera un paleo-isolazionista – ma la cosa evidente è che nella discussione tra gli otto democratici non sono mai emersi i temi del fondamentalismo islamico e della ideologia totalitaria alla sua base, mentre i repubblicani non avrebbero mai smesso di parlarne. In generale, però, i tre candidati top del Partito democratico (Hillary Clinton, Barack Obama e John Edwards) al momento sembrano decisamente più “presidenziali”, più adatti al ruolo e più a loro agio dei tre big repubblicani, Rudy Giuliani, John McCain e Mitt Romney, nessuno dei quali è il Nicolas Sarkozy d’America. I candidati conservatori alla successione di George W. Bush sono dieci, ma dopo questo dibattito è probabile che aumenteranno di numero. Alla Reagan Library, sotto l’ala protettiva dello spirito ottimista e della replica dell’Air Force One presidenziale, nessuno dei repubblicani è riuscito ad ottenere l’incoronazione di erede ufficiale, malgrado il nome di Reagan sia stato pronunciato 20 volte in 90 minuti. Le partite erano due. La prima tra i frontrunner, cioè tra i tre favoriti. La seconda tra i second-tier, ovvero tra i candidati di seconda fascia, gli ex governatori Mike Huckabee, Tommy Thompson, Jim Gilmore, il senatore Sam Brownback e i deputati Duncan Hunter, Ron Paul e Tom Tancredo. Sia gli uni che gli altri, con l’eccezione di Paul, sono d’accordo sul mantenere una politica estera e di sicurezza aggressiva e offensiva, forse ancora di più di quella bushiana. L’attuale presidente è stato criticato per la gestione materiale della guerra, soprattutto da McCain, ed è stato apertamente lodato soltanto da Rudy Giuliani, il quale in chiusura del dibattito ha detto che “il 20 settembre 2001 Bush ha preso la decisione giusta e la storia lo ricorderà per questo”. Sulle tasse sono tutti d’accordo con i tagli di Bush, anche McCain che in un’occasione aveva votato contro (“ma solo perché la guerra e il deficit richiedevano maggiori sacrifici”). C’è chi vorrebbe tagliare altre imposte, chi vorrebbe introdurre un’unica aliquota e il libertario Paul che vorrebbe abolire del tutto la tassa sul reddito e restituire agli americani il costo dell’inflazione. Le vere divergenze si sono ascoltate sulle questioni etiche, con Giuliani preso di mira e parecchio contraddittorio nelle risposte. Il conduttore ha chiesto ai candidati che tipo di reazione avrebbero nel caso la Corte suprema decidesse di ribaltare la sentenza Roe contro Wade che ha reso l’aborto un diritto costituzionale. I più social conservative hanno detto che saluterebbero quel giorno come uno dei più felici della storia americana, McCain è stato leggermente più tiepido, mentre Giuliani ha detto che “it would be ok”, cioè che andrebbe bene, “ma che andrebbe bene anche se i giudici considerassero quella sentenza un precedente consolidato”. La posizione di Giuliani è delicata, in un partito profondamente pro-life: ha ribadito che è personalmente contrario all’aborto (“lo odio”), ma riconoscendo il diritto di scelta della donna e anche quella dei singoli stati di finanziare l’interruzione di gravidanza. E’ apparso impacciato e incapace di parlare ai social conservative, anche se ha incassato la dichiarazione del loro paladino, Brownback, il quale ha detto che non avrebbe problemi a votare alla presidenza un candidato favorevole all’aborto. Romney un tempo era favorevole, ora non più (“ho cambiato idea come Reagan”). Giuliani è stato ambiguo anche sul finanziamento federale alla ricerca sulle cellule staminali embrionali. Otto candidati su dieci hanno detto chiaramente di no. McCain di sì. Giuliani un po’ sì, un po’ no: “A patto che non si crei vita per poi distruggerla e finché non si faccia la clonazione umana”. Solo tre su dieci, Brownback, Huckabee e Tancredo, hanno detto di non credere alla teoria dell’evoluzione. L’altro scontro è stato sull’immigrazione, con Tancredo e Hunter su posizioni paleo-leghiste, Giuliani e Romney favorevoli alla carta di identità per gli stranieri e John McCain a sostenere il piano di Bush che prevede sicurezza alle frontiere e regolarizzazione temporanea dei lavoratori già presenti. Tra i candidati di seconda fascia, s’è fatto notare l’ex governatore dell’Arkansas Mike Huckabee, nato a Hope, lo stesso paese di Bill Clinton. Tra i big, quello che è andato peggio è stato Giuliani. L’ex sindaco di New York non è un animale televisivo, non è simpatico ed è naturalmente più adatto a far botte per strada che a rispettare le regole di un dibattito che in alcuni momenti è sembrato più un quiz televisivo con trenta secondi a disposizione di ciascun candidato per dare la risposta giusta. Il settantunenne McCain ha provato a dare di sé un’immagine di vigore, forza e ottimismo, ma – in particolare quando ha sfoderato un sorrisetto perfido dopo aver detto che avrebbe inseguito Bin Laden fino alle “porte dell’inferno” – è sembrato una via di mezzo tra Braccio di Ferro e Jack Nicholson in “Shining”. Il più a suo agio era Mitt Romney, soprannominato “un Bill Clinton con i pantaloni alzati”, ma le sue pose e le sue risposte suonavano eccessivamente piacione, quasi fosse un attore impegnato a ottenere la parte del presidente. Il vero vincitore, quindi, potrebbe essere stato Fred Thompson, per il semplice fatto di non aver ancora annunciato la candidatura ed essere rimasto lontano dalla Reagan Library. Le indiscrezioni assicurano che l’ex senatore del Tennessee, oggi attore di successo, potrebbe scendere in campo tra giugno e luglio. Prima di quella data, a fine maggio, gli americani lo vedranno sugli schermi Hbo, nel film “Bury my heart at wounded knee”. Interpreterà Ulysses S. Grant, il diciottesimo presidente degli Stati Uniti.
5 Maggio 2007