Camillo di Christian RoccaLa fine del clintonismo

Per come si stanno mettendo le cose, le prossime elezioni presidenziali americane del novembre 2008 potrebbero segnare la fine del clintonismo, più che del bushismo. Non è mai prudente annunciare la fine di qualcosa, ne sanno qualcosa Francis Fukuyama e Daniel Bell, autori di “The End of History” e di “The End of Ideology”, pubblicati poco prima che sia la storia sia l’ideologia tornassero prepotentemente a farsi sentire. Non c’è dubbio, però, che oggi sia il Partito democratico clintoniano, centrista e moderato, quello che sta subendo la trasformazione più radicale rispetto alla sua tradizione e alle politiche espresse dal suo ultimo esponente eletto alla Casa Bianca. Mentre sul fronte repubblicano nessuno mette in discussione i due capisaldi del bushismo – guerra al terrorismo e taglio delle tasse – i due principi cardine degli anni di Bill Clinton – l’apertura ai mercati stranieri e la politica estera di allargamento della sfera democratica – sono scomparsi dai programmi dei candidati presidenziali di centrosinistra e dal lessico del partito. Il paradosso è che a porre fine all’era clintoniana potrebbe essere un candidato che di cognome fa proprio Clinton. Hillary, infatti, non è soltanto in testa a tutti i sondaggi in vista delle elezioni primarie che tra sei mesi sceglieranno il candidato democratico alla Casa Bianca, ma è anche la capofila del tradimento delle politiche economiche care a suo marito. E’ possibile, anzi probabile, che l’ex first lady stia rinnegando le coraggiose ricette di Bill non perché ci creda davvero, ma per un temporaneo calcolo politico di riallineamento con la base radicale del partito, decisiva per ottenere la nomination alle primarie. C’è, infatti, chi è pronto a scommettere che una volta conquistata la candidatura presidenziale, Hillary tornerà a seguire le orme di Bill sia sulla politica economica sia su quella estera. Resta il fatto che i democratici hanno compiuto una svolta populista ed economicamente illiberale che fa a pugni con la posizione degli ultimi otto anni in cui sono stati alla Casa Bianca. Le prime avvisaglie sono state colte nel 2004, quando alla Convention del partito che a Boston incoronò John Kerry come sfidante di George W. Bush, il candidato democratico criticò la scelta della Casa Bianca di voler rilanciare l’economia e la società irachena, quando quei soldi dei contribuenti americani avrebbero potuto più utilmente essere investiti in patria: “Non dovremmo aprire stazioni dei pompieri a Baghdad, e chiuderle qui negli Stati Uniti”, disse Kerry in uno dei passaggi più applauditi del suo discorso di accettazione della candidatura. La svolta si è completata in occasione delle elezioni di metà mandato del novembre dello scorso anno e ne è uscita rafforzata perché, in parte grazie anche a questa piattaforma politica populista e nazionalista, i democratici hanno vinto le elezioni e ottenuto la maggioranza di deputati e senatori. Il partito dei Clinton, infatti, ha speculato su una presunta insicurezza economica degli americani, più percepita che reale e più figlia dell’insicurezza bellica e terroristica che legata a effettivi bisogni o a mancanze materiali. Il Partito democratico così è diventato economicamente isolazionista, sospettoso dell’invasione di merci provenienti da paesi stranieri e rumorosamente contrario agli accordi commerciali che consentono alle aziende americane di creare posti di lavoro all’estero. Una posizione che in Italia è quella della Lega e di Alleanza nazionale, oltre che dei movimenti no global. Al nuovo corso del Partito democratico non interessa che le aziende americane abbiano creato maggiore ricchezza sia in patria sia altrove, né che negli Stati Uniti l’occupazione sia sostanzialmente piena, né che i prezzi delle merci siano sempre più bassi, come avevano previsto la clintonomics e la dottrina del libero commercio. Il nuovo credo è populista e no global, tanto che si è fatta avanti una nuova serie di leader democratici, a cominciare dal neosenatore dell’Ohio Sherrod Brown, un tosto populista contrario ai principi del libero mercato e diventato ora il nuovo modello nazionale dei democratici. John Edwards è stato il primo dei candidati presidenziali a sintonizzarsi sulla nuova onda, un tempo di casa solo tra la destra reazionaria e nativista. Edwards, in pochi mesi, ha trasformato la sua immagine di moderato, centrista e clintoniano (ricordatevi che nel 2004 era il preferito di Walter Veltroni), in quella del paladino dei diffidenti e delusi dalla globalizzazione. Il modello populista, confortato dalla vittoria alle elezioni di metà mandato, non ha conquistato soltanto Edwards, ma ha spostato l’intero equilibrio politico del Partito democratico e ora è proprio Hillary, la moglie di Bill Clinton, la più solerte a rinunciare al clintonismo economico. La settimana scorsa, un inconsueto durissimo editoriale del Washington Post ha evidenziato il “pensare piccino” di Hillary e il tradimento consapevole, a fini politici personali, delle politiche economiche di cui l’America e il mondo non possono fare a meno. Hillary, così come i principali candidati presidenziali del suo partito, ha annunciato che si opporrà al trattato di libero scambio tra l’America e la Corea del sud. Ad aprile, dopo una trattativa lunga dieci mesi, l’Amministrazione Bush ha concluso con Seul un accordo commerciale molto simile al Nafta siglato nel 1993 da Bill Clinton con il Messico e il Canada. Si tratta di un patto commerciale tra due grandi democrazie che porterà benefici comuni e che non si trascina dietro problemi etici sullo sfruttamento dei lavoratori, perché la Corea è una ormai solida democrazia con un forte movimento sindacale. Questo accordo, secondo il Washington Post e secondo le linee guida della clintonomics redatte da Robert Rubin, aprirà il mercato coreano ai prodotti industriali e culturali americani, così come all’agricoltura e ai servizi terziari, dimostrando peraltro al resto del mondo l’impegno americano in una regione vitale al tempo in cui la Cina continua a guadagnare terreno e mercati. “Eppure – ha commentato il giornale liberal della capitale americana – la signora Clinton sembra più una venditrice di automobili che una statista”. Non si era mai letto un insulto così nei confronti di Hillary su un giornale d’area. Hillary sostiene che grazie a questo accordo arriveranno in America più automobili coreane, qundi ci sarà un danno per le industrie automobilistiche americane, ma il Washington Post ha ricordato che l’accordo prevede anche che i coreani tolgano le tariffe e le tasse discriminatorie esistenti oggi per le automobili americane in Corea, quindi gli americani avranno l’apertura di quel mercato, oggi di fatto protetto da Seul. John Edwards sta con la Clinton, Barack Obama non ha ancora deciso come comportarsi, perché in ballo c’è il voto del Michigan, dove i sindacati delle industrie automobilistiche di Detroit hanno un forte peso alle elezioni primarie. “Dove sono i candidati democratici col coraggio di dire, come fece a suo tempo Bill Clinton, che l’apertura del mondo è un bene per l’America e un bene anche per il resto del mondo? – si è domandato il Post – La speranza era che Hillary Clinton fosse un candidato di questo tipo. Ma se non lo fa in un caso così chiaro come questo, questa speranza potrebbe essere stata mal riposta”. Michael Gerson, l’ex speechwriter di George W. Bush oggi commentatore del Washington Post e analista del Council on Foreign Relations, intravede lo stesso fenomeno della fine d
el clintonismo e, in realtà, lo estende anche al bushismo. Secondo Gerson sia Clinton sia Bush sono più moderati e centristi rispetto ai loro partiti e non è un caso che, entrambi – l’uno del 1992 e l’altro nel 2000 – si siano autodefiniti “un diverso tipo di democratico” e “un diverso tipo di repubblicano”. Il motivo dell’attuale svolta democratica, secondo Gerson, è che a differenza del 1992 il partito non reagisce al fallimento della sua leadership di sinistra, come è accaduto dopo aver consegnato le chiavi del partito per due cicli elettorali a Walter Mondale e a Michael Dukakis. I democratici, questa volta, hanno un bersaglio facile nel proprio mirino, George W. Bush, e il disastro della guerra in Iraq, sicché “non c’è spazio per l’introspezione e l’autocorrezione”. I centri studi clintoniani si sforzano per scongiurare questo pericoloso ritorno al passato e producono documenti per dimostrare che il ceto medio non è affatto economicamente disperato, come recita il mantra dei candidati democratici. Il Middle Class Project del Centro studi per la Terza Via ha appena pubblicato un rapporto per correggere la cattiva interpretazione che i progressisti danno dell’inquietudine del ceto medio americano. I leader democratici credono che la maggioranza del ceto medio si sia spostata a sinistra perché non riesce ad arrivare alla fine del mese e perché finalmente ha trovato nei democratici i difensori dei suoi reali interessi, a cominciare dal rigetto delle politiche di libero scambio. Secondo gli studiosi di Third Way, questa falsa rappresentazione rischia di indurre il partito a compiere scelte politiche sbagliate e, magari, a perdere le elezioni 2008. I nuovi elettori che hanno fatto vincere le elezioni di metà mandato al partito non hanno votato per i democratici a causa dell’insicurezza economica, piuttosto per la corruzione del Congresso repubblicano, per la guerra in Iraq e per l’impopolarità di Bush. Nel 2005, spiegano gli analisti clintoniani, il reddito medio degli americani tra i 25 e i 59 anni è stato superiore ai 61 mila dollari, mentre il dato medio per le coppie di lavoratori è di oltre 81 mila dollari. Queste cifre non garantiscono uno standard di vita lussuoso, ma certo né la fame né la rovina finanziaria. Il documento di Third Way ricorda inoltre ai democratici che il ceto medio è decisamente ottimista, sospetta dell’ingerenza dello stato e crede fermamente nel sistema capitalista americano. “Le proposte politiche progressiste” si occupano giustamente delle sacche di povertà, ma al contrario di quanto pensano i leader del partito “non favoriscono il ceto medio”, non vanno incontro alle aspettative di questo gruppo di americani che costituisce “il motore dell’economia e dell’America”. Lo stessa schema si ripete sulla sicurezza nazionale e sulla politica estera. La vittoria alle elezioni di metà mandato ha convinto candidati e leadership del Partito democratico che la maggior parte degli americani abbia definitivamente abbandonato le riserve e le diffidenze nei confronti dei progressisti sulle politiche di difesa nazionale, notoriamente cominciate nella stagione post Vietnam. A causa del caos in Iraq l’affidabilità dei repubblicani su questi temi è crollata, ma da qui a credere che gli americani sposino il disfattismo e l’assoluta mancanza di alternative offerte dei candidati democratici alle presidenziali ce ne corre. A metterci una pezza, di nuovo, ci provano i centri studi e gli analisti clintoniani. Il nuovissimo “Center for a New American Security” è un centro studi bipartisan che avrà un ruolo decisivo nel caso Hillary entrasse alla Casa Bianca, probabilmente più importante di quello che ha avuto il famigerato “Project for a New American Century” per Bush. Il think tank è guidato da una serie di dirigenti clintoniani ex del Pentagono e del Consiglio di sicurezza nazionale, dall’ex segretario alla Difesa, William J. Perry, all’ex segretario di stato, Madeleine Albright. E poi, ancora, l’ex capo dello staff di Clinton, John Podesta, una serie di ex generali e ammiragli, vari esperti di questioni di difesa come Rand Beers e Michael O’Hanlon e James Steinberg, quest’ultimo probabile consigliere per la Sicurezza nazionale di Hillary se l’ex first lady vincesse le presidenziali. Con loro c’è anche il conservatore realista Richard Armitage, ex vice di Colin Powell ma anche firmatario del famoso appello a Bill Clinton preparato nel 1998 dal Project for a New American Century per sostenere il cambio di regime a Baghdad. A fari spenti, i clintoniani di Bill preparano le basi di una politica di difesa e di sicurezza credibile, mentre la candidata Hillary si muove pubblicamente in senso opposto per convincere l’ala sinistra del partito con risultati non sempre soddisfacenti, visto che malgrado i passi indietro sull’Iraq ieri è stata comunque fischiata alla conferenza pacifista del Take Back America. C’è un segnale ancora più rumoroso della fine del clintonismo, anche ammesso che l’allontanamento di Hillary dall’ortodossia clintoniana sia soltanto una mera tattica politica in vista delle primarie, come dimostrerebbe l’attivismo del Center for a New American Security: uno dei più autorevoli diplomatici degli anni di Clinton, quel Ronald Asmus che al Dipartimento di stato curava i rapporti con gli alleati europei, ha notato che dai discorsi, dai documenti, dai rapporti firmati da esponenti del Partito democratico è definitivamente scomparsa la parola “democrazia”. Abbiamo un problema, ha scritto Asmus domenica sul Washington Post, “abbiamo perso la nostra voce sulla questione della promozione della democrazia” e, cosa ancora più grave, “quella che una volta era l’idea centrale della politica estera di sinistra è stata ceduta al Partito repubblicano”. Asmus ha ricordato che, nel 1995, la promozione della democrazia “era uno dei tre pilastri centrali della prima Strategia di Sicurezza nazionale di Bill Clinton” (lo stratega, allora, era Tony Lake, oggi consigliere di politica estera di Barack Obama). Dopo l’undici settembre, è stato Bush, e in Europa il socialista liberale Tony Blair, a prendere in mano la fiaccola di una politica estera centrata sulla promozione della democrazia, col risultato che per evitare di dare ragione al presidente texano i democratici hanno preferito cambiare linea, sposando la tradizionale fredda e cinica politica estera realista della destra americana. “Woodrow Wilson, Franklin Delano Roosevelt, Harry Truman e John F. Kennedy – ha scritto Asmus citando i giganti del liberalismo di sinistra americano entrati alla Casa Bianca – si saranno rivoltati nella tomba, perché l’uso del potere americano per promuovere libertà e democrazia era l’asse centrale della loro politica estera e della loro eredità”. Asmus ha aggiunto che “gli interventi di Bill Clinton nei Balcani e la volontà di espandere la Nato erano passi per consolidare la democrazia nella metà orientale dell’Europa”. Ora non è più così. La parola democrazia non si sente più nelle parole dei candidati presidenziali del Partito democratico, né se ne fa cenno nei loro siti di campagna elettorale: “Quando i militanti democratici di tutto il mondo arrivano a Washington, trovano più facile trovare tempo e attenzione dai senatori repubblicani, piuttosto che da quelli democratici”. Il paradosso è che più Bush parla di democrazia e di libertà, cioè dei temi tradizionali della politica estera democratica, più i democratici se ne distan
ziano perché quelle due parole sono ormai indissolubilmente legate alla guerra irachena. Asmus prevede che così facendo, abbandonando cioè i principi clintoniani dell’internazionalismo liberal, si rischia di perdere la Casa Bianca nel 2008, oltre che la faccia. In teoria, di fronte agli errori di esecuzione di Bush, la ricetta democratica dovrebbe essere quella di rilanciare i principi della propria tradizione politica e poi di dire ai repubblicani di mettersi da parte ché in questo campo gli esperti sono loro. In teoria, però. In pratica, invece, l’internazionalista liberal oggi è Bush. E con la scadenza del suo secondo mandato, nel gennaio 2009, è probabile che finirà anche il clintonismo.

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