Brooke Astor, first lady di New York, 1902-2007. Centocinque anni di “vita meravigliosa”, come lei stessa ha chiesto di far incidere sulla sua tomba. Oltre un secolo di formidabile storia americana a cui è stato messo un punto lunedì alle due del pomeriggio, quando la gran dama della filantropia newyorchese è morta nella sua villa di campagna di Holy Hill. Ai funerali che si celebrano oggi nella chiesa gotica di San Tommaso, sulla Fifth Avenue, si aspetta una folla immensa, paragonabile soltanto a quella che diede l’ultimo saluto ad altri due grandi newyorchesi: il sindaco Fiorello La Guardia e l’attore Rodolfo Valentino. Brooke Astor è stata il personaggio più in vista della città per una quarantina d’anni, come in questi giorni ripetono i personaggi più influenti della New York odierna e come racconta l’ultima sua biografia, “The last Mrs. Astor”, scritta dall’ex giornalista del New Yorker Frances Kiernan*. L’ultima signora Astor è stata l’ospite più gradita nei salotti dell’Upper East Side, la socialite più desiderata, e una venerata maestra di stile. Il lato mondano è stato centrale nella sua “vita meravigliosa”, ma non sarebbe stata Brooke Astor se di giorno non avesse girato la città a distribuire personalmente, e sempre vestita di tutto punto, i 200 milioni di dollari del suo patrimonio a duemila tra enti culturali, scuole, parchi e ospedali della città. “I soldi sono come il concime – ripeteva – sono utili soltanto se vengono seminati”. Quei soldi glieli lasciò suo marito, Vincent Astor, ultimo erede di John Jacob Astor, arrivato a New York nel 1783 come macellaio e morto nel 1848 dopo essere diventato il primo milionario d’America. Il marito di Brooke, pronipote del primo Astor, aveva ereditato l’enorme fortuna alla morte del padre, avvenuta nel pieno dell’oceano Atlantico a bordo del Titanic. Nel 1959, Vincent Astor lasciò in eredità a Brooke 60 milioni di dollari, più la gestione di una fondazione benefica con un patrimonio di 67 milioni: “Ti divertirai un sacco a distribuire soldi, dolcezza”, le disse in punto di morte. Non c’è dubbio che Brooke si sia divertita, impegnata a donare fino all’ultimo centesimo l’intero patrimonio della fondazione Astor, negli anni rivalutatosi fino a 200 milioni di dollari. Una mossa inconsueta. I controllori delle fondazioni benefiche tendono infatti a non esaurire asset finanziari e mandato filantropico, per mantenere il ruolo in società. Brooke Astor ha deciso altrimenti, secondo il New York Sun perché si sentiva ideologicamente più a suo agio con la filosofia di fondazioni politiche come la John Olin, finanziatrice fino all’esaurimento di un patrimonio di oltre mezzo miliardo di dollari a favore di cause intellettuali conservatrici. Brooke Astor era repubblicana e in particolare grande amica di Ronald e Nancy Reagan. Quando, dopo un aiuto finanziario allo zoo del Bronx, fu dato in suo onore il nome “Astor” a un baby elefante, molti pensarono a un riferimento alla sua affiliazione al Partito repubblicano che per simbolo ha, appunto, un elefante. La fondazione Astor era stata creata da suo marito nel 1948 per “migliorare la miseria umana”, Brooke lasciò di stucco i gestori scelti da Vincent quando comunicò che se ne sarebbe occupata direttamente lei. La sua prima mossa fu di vendere il settimanale Newsweek e di liquidare alcune pendenze familiari, poi cominciò la sua grande avventura nel mondo della beneficenza. Le sue idee erano chiare: non un centesimo se non vedo con i miei occhi il progetto e i soldi appartengono a New York, perché sono stati creati in questa città grazie ai newyorchesi. Brooke Astor fece anche altro: contribuì in modo decisivo a cambiare l’approccio alla beneficenza dei milionari newyorchesi. Una delle sue prime donazioni fu di un milione di dollari a un progetto sociale destinato a impedire che i teenager entrassero nelle bande criminali di quartiere. Era il 1961, l’anno in cui “West Side Story” vinse l’Oscar come miglior film. La mossa di Brooke Astor non fu soltanto preveggente, ma violò per la prima volta il confine delle donazioni concesse alle solite e gloriose istituzioni caritatevoli cittadine, quelle favorite dai cosiddetti “Four Hundred”. L’espressione “i quattrocento” risale al diciannovesimo secolo e il numero era quello della capacità della sala da ballo della moglie di William Astor, la nonna del marito di Brooke. Quando si diceva “i quattrocento” con una sola parola si intendeva l’aristocrazia di New York, la ricchezza antica, l’alta società e le buone maniere. Brooke Astor era una dei quattrocento ma non ne faceva parte, tanto che ha contribuito a dissolverli aprendo per la prima volta le porte di quel ristretto club ai nuovi ricchi di Wall Street. “Sono una nouvelle pauvre”, diceva lei. Brooke Astor cercava il cambiamento sociale, sia nei salotti dell’alta società sia nei barrios di East Harlem. Girava con la sua Mercedes i quartieri malfamati per andare a vedere con i suoi occhi i progetti sociali a cui avrebbe potuto dare una mano. Una buona parte dei soldi della sua fondazione sono serviti a tamponare necessità pubbliche poco visibili, ma le donazioni più rumorose sono state a quelli che lei chiamava “i gioielli della Corona”: la Carnegie Hall, la Columbia University, la New York University, la Morgan Library, il Metropolitan Museum, il Museo di Storia Naturale e, soprattutto, la New York Public Library che lei letteralmente salvò dalla bancarotta negli anni Settanta. In tutte queste istituzioni culturali il marchio di Brooke è visibile ancora oggi: una sala, un cortile, un’entrata, ovunque c’è qualcosa a lei dedicato. Nel 1996 la New York Landmarks Conservancy che cura i monumenti cittadini la nominò “monumento vivente”, perché “una lista dei monumenti della città è incompleta senza il suo nome”. Il ruolo della Astor, infatti, era superiore alle sue capacità finanziarie. Il rapporto annuale della sua fondazione era una specie di indicatore pubblico delle cause giuste da sostenere e serviva agli altri milionari da bussola per le loro donazioni. Tutto questo avveniva di giorno, perché di sera Brooke Astor si trasformava nella gran dama dei salotti, dove è stata regina fino a tutti i suoi novanta anni. Dopo la morte di Vincent, Brooke non s’è mai risposata perché, diceva, non voleva che intorno alle nove di sera, nel bel mezzo di un party, ci fosse qualcuno che le picchiettasse sulla spalla per chiederle di tornare a casa. A un ammiratore che le fece un complimento galante e le chiese chissà quanti amori avesse avuto nella sua vita, Brooke rispose che, in effetti, quando non riusciva a dormire cominciava a contarli, ma purtroppo si addormentava ben prima di arrivare alla fine della lista. La sua vita non è stata sempre meravigliosa. Nata in New Hampshire e vissuta in giro per il mondo e per l’America al seguito del padre comandante dei marines, a sedici anni fu promessa sposa al milionario Dryden Kuser. Il matrimonio fu un disastro e finì dopo 11 anni di lussi apparenti e miseria personale. Da Kuser, Brooke ebbe un figlio, Anthony, oggi 83enne e al centro dell’ultima e mortificante porzione della sua vita. Due anni dopo il divorzio, Brooke conobbe l’amore della sua vita, Charles Marshall, con cui ha vissuto “i venti anni più belli della mia vita”. Suo figlio Anthony ammirava così tanto Charles che decise di adottare il cognome del padrino anziché quello del padre. Charles morì d’improv
viso nel 1952, lasciando Brooke e suo figlio senza un dollaro. Brooke fu assunta dalla Condé Nast come giornalista di House & Garden. Scrivere le piaceva tanto che successivamente ha pubblicato due romanzi, due saggi, e ha continuato a firmare per Vanity Fair fino a 94 anni. Pochi mesi dopo conobbe Vincent Astor e l’anno successivo, nel 1953, lo sposò. I cinque anni e mezzo con l’erede degli Astor, ricorda Brooke allora quasi cinquantenne, non furono piacevoli: lui era geloso, non le permetteva di parlare al telefono e le fece vivere una vita solitaria in mezzo ai lussi di famiglia. Soltanto dopo la morte di Vincent, nel 1959, è cominciata la leggenda di Brooke Astor, legata non soltanto al fatto che fosse una regina dei salotti capace di distribuire oculatamente denaro in una città dove i megaricchi sostengono sia più facile guadagnarli quei milioni, piuttosto che spenderli, ma anche perché si intuiva che tenesse davvero a migliorare le cose per i suoi concittadini. In un’era in cui i megaricchi non godono di buona reputazione, ha scritto il New York Sun, lei ha ricordato l’uso che si può fare di una grande fortuna e come una grande ricchezza non pregiudichi necessariamente una persona dall’essere ammirata e rispettata da gente di tutte le estrazioni: “E’ una grande storia di New York e una grande storia americana”. Un po’ meno grandiosa è la coda della sua vita, destinata a occupare le prime pagine dei tabloid per i prossimi mesi, forse anni. L’anno scorso il nome di Brooke Astor è tornato a fare notizia, malgrado lei, 104enne, da tempo non fosse più cosciente. Suo nipote, Philip Marshall, ha fatto causa al padre Anthony, figlio di Brooke, accusandolo di non prendersi adeguata cura della nonna, anzi di averla defraudata di svariati milioni di dollari e di quadri di valore un tempo esposti nella casa di Park Avenue. Philip, coadiuvato dai grandi amici della nonna (Annette de la Rente, Henry Kissinger e David Rockfeller), ha sostenuto che il padre negasse a Brooke, da quattro anni affetta da demenza senile, le cure necessarie e che la facesse vivere in condizioni squallide su un divano impregnato di urina. Anthony e sua moglie Charlene hanno negato tutto, ma sono stati costretti a chiudere un accordo extragiudiziale per evitare guai al processo. Anthony, così, ha perso la custodia di Brooke e del suo patrimonio personale, affidata alla de la Renta e alla JP Morgan. In più ha dovuto restituire undici milioni di dollari. L’accordo ha imposto una tregua sulla battaglia legale, ma la morte di Brooke l’ha subito riaperta. Philip, forte di una perizia tecnica, è certo che suo padre abbia aggiunto di suo pugno tre emendamenti alle ultime volontà della nonna (apportati negli ultimi tre anni) che gli affidano il controllo del patrimonio, da Brooke inizialmente destinato alle grandi istituzioni culturali della città. –———— * Al direttore – Nel lungo articolo di ieri su Brooke Astor ho scritto che l’autrice della sua più recente biografia è Mary McCarthy, quando invece è l’ex giornalista del New Yorker Frances Kiernan, autrice in precedenza anche di un libro dedicato alla McCarthy. Me ne sono accorto alle dieci di sera italiane, troppo tardi per gli orari di chiusura del Foglio. Fossimo un grande giornale avrei avuto tutto il tempo di correggere il lapsus, ma visto che siamo un grandissimo giornale chiedo scusa. Christian Rocca
18 Agosto 2007