Camillo di Christian RoccaIl fronte washingtoniano della guerra in Iraq oggi va male

New York. Le buone notizie irachene sono durate soltanto un paio di giorni, da ieri per la Casa Bianca di George W. Bush sono tornati i titoloni scettici e pessimisti, le critiche dei democratici e i mugugni repubblicani. Settembre è il mese cruciale per il fronte americano della campagna irachena. Washington attende il rapporto militare e quello politico che il generale David Petraeus e l’ambasciatore Ryan Crocker si apprestano a presentare al Congresso l’undici e il dodici settembre, poi si tireranno le somme. Prima e dopo quella data ci saranno altri resoconti ufficiali: il 4 settembre il Government Accountability Office valuterà se Baghdad ha rispettato i 18 suggerimenti fissati dal Congresso, poi ci sarà il rapporto di un ex comandante dei marine sulla situazione della sicurezza. Ieri mattina, però, le prime pagine dei giornali sono state occupate da quattro fatti che hanno di nuovo invertito l’inerzia del dibattito politico americano. Il primo fatto, in ordine cronologico, è la pubblicazione di un estratto del National Intelligence Estimate (NIE), il documento di valutazione delle minacce alla sicurezza americana, tristemente noto per aver scommesso, nel 2002, sulla presenza in Iraq di armi di distruzione di massa. Le quattro pagine dedicate all’Iraq esprimono il consenso di tutte le agenzie di intelligence, quindi sono necessariamente ricche di caveat e di valutazioni contraddittorie, tanto che sia la Casa Bianca sia i leader del Partito democratico sostengono di aver trovato conferme alle proprie posizioni. A febbraio la valutazione della situazione sul campo era pessima, otto mesi dopo il NIE scrive che la strategia di Petraeus ha migliorato la situazione della sicurezza – il numero degli estremisti catturati è aumentato del 50 per cento – anche se con risultati ineguali, ma dice anche che il governo di al Maliki è incapace e inadeguato. I democratici, come Hillary Clinton, leggono il documento come la conferma dell’inutilità della strategia bushiana, in teoria volta a migliorare la sicurezza sulle strade al fine di concedere al governo di Baghdad un po’ di tempo per avviare la riconciliazione nazionale. Gli uomini vicini alla Casa Bianca riconoscono le difficoltà politiche, ma notano che il documento sostiene che un eventuale cambiamento di strategia militare, cioè un disimpegno, farebbe immediatamente peggiorare la situazione della sicurezza, cancellando i progressi di questi ultimi mesi. Il miglioramento è riconosciuto da tutti, esperti e politici, compresi Hillary Clinton e Barack Obama, ma secondo un reportage del New York Times pubblicato ieri in prima pagina, non dal crescente numero di iracheni che in questi mesi ha lasciato con maggiore frequenza la propria casa a causa dell’intensificarsi dei combattimenti. Questo è il secondo fatto negativo. Il terzo è opera del senatore repubblicano John Warner. Rispettato leader conservatore in commissione Difesa del Senato, Warner ha chiesto al presidente di cominciare un ordinato disimpegno dall’Iraq, anche solo di 5 mila uomini, entro la fine dell’anno (Ryck Lynch, comandante delle truppe a sud di Baghdad, ha risposto che sarebbe “un gigantesco passo indietro”). Warner è uno di quei senatori repubblicani contrari all’invio di nuovi soldati in Iraq, anche se non ha mai votato con i democratici. La sua richiesta mette in difficoltà Bush, sebbene Warner abbia ribadito di non voler votare una risoluzione che impone un calendario di ritiro. “Vorrei però che Bush la prevenisse”, ha detto. Lo scoop del Los Angeles Times L’ultima delle quattro notizie è uno scoop del Los Angeles Times. Secondo alcuni funzionari dell’Amministrazione e del Pentagono, il presidente del Joint Chiefs of Staff, Peter Pace, sarebbe pronto a suggerire al presidente di ridurre entro il prossimo anno il numero delle forze americane in Iraq di quasi la metà. Pace è il militare più alto in grado di Washington, anche se il suo mandato scade il 30 settembre ed è già pronto a sostituirlo l’ammiraglio Mike Mullen. Pace crede che sia necessario ridurre il numero delle truppe in Iraq non in sé, ma per migliorare la capacità dell’esercito americano di rispondere a eventuali altre minacce. L’idea di Pace, condivisa dal segretario alla Difesa, è quella di lasciare in Iraq non molto più di centomila uomini. La Casa Bianca sembra inflessibile e si affida al mantra degli ultimi mesi, “aspettiamo la relazione del generale Petraeus al Congresso”. Petraeus dice da tempo che l’aumento delle truppe in Iraq non potrà continuare all’infinito, quindi il problema di Bush è quello di trovare un modo per ridurre il numero di soldati che sembri una conseguenza di un successo militare, non di una disfatta come in Vietnam. In piena campagna elettorale del 2008 difficilmente i democratici glielo consentiranno.

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