Camillo di Christian RoccaBush in Iraq

Il presidente americano George W. Bush è volato a sorpresa in Iraq, atterrando ieri mattina alla base aerea di al Asad, nella provincia di Anbar. E’ stata la terza visita in Iraq di Bush, dopo la destituzione del dittatore iracheno Saddam Hussein del 2003, la prima in una zona sunnita che fino a poco tempo fa era dominata da al Qaida ed era l’epicentro del caos post invasione.

New York. Il presidente americano George W. Bush è volato a sorpresa in Iraq, atterrando ieri mattina alla base aerea di al Asad, nella provincia di Anbar. E’ stata la terza visita in Iraq di Bush, dopo la destituzione del dittatore iracheno Saddam Hussein del 2003, la prima in una zona sunnita che fino a poco tempo fa era dominata da al Qaida ed era l’epicentro del caos post invasione. Bush è volato proprio lì, per far rimbalzare in America le notizie dei progressi compiuti grazie alla nuova strategia politica e militare elaborata all’inizio di gennaio insieme con il generale David Petraeus. “Con altri successi – ha detto ieri il presidente – potremo ridurre il numero delle truppe, da una posizione di forza, non di paura e fallimento”.
La situazione nella provincia a nordovest di Baghdad è migliorata in modo sensibile, sia secondo fonti governative sia secondo i racconti indipendenti di analisti e giornalisti dei grandi quotidiani liberal, ma non al punto da convincere Bush a uscire dalla base protetta da diecimila soldati. Il viaggio è stato pensato sei settimane fa, in vista del dibattito congressuale sul futuro della guerra irachena che comincerà a Capitol Hill il 10 e l’11 settembre con le relazioni di Petraeus e dell’ambasciatore a Baghdad, Ryan Crocker. Il 15 ci sarà la relazione della Casa Bianca, poi toccherà al Congresso esprimersi. A parte il ristretto gruppo di senior advisor di Bush, nessuno era al corrente della visita in Iraq. I giornalisti al seguito del presidente erano pronti a partire ieri mattina per l’Australia, dove Bush parteciperà al vertice dei paesi dell’area asiatico-pacifica, ma sono stati convocati dall’ufficio stampa della Casa Bianca già domenica pomeriggio. Gli uomini del Pentagono e del Consiglio per la sicurezza nazionale hanno preso in consegna cellulari e computer e spiegato ai cronisti che si sarebbe fatta tappa in Iraq, dopo un volo di undici ore. Bush li ha raggiunti sull’Air Force One, dopo essere uscito da una porta laterale della Casa Bianca. Le misure di sicurezza sono state particolarmente rigide, anche perché Bush ha deciso di riunire in Iraq tutto il suo gabinetto di guerra, proprio per sottolineare l’importanza del momento. Una cosa del genere non era mai successa, ma era esattamente il gesto simbolico, rivolto sia a Washington sia a Baghdad, ideato da Bush. Con lui, infatti, c’erano anche il consigliere per la Sicurezza nazionale, Stephen Hadley, il segretario di stato, Condoleezza Rice, il coordinatore delle guerre in Iraq e Afghanistan, Douglas Lute, e i maggiori consiglieri. Alla base aerea, con altri mezzi, sono arrivati anche il segretario alla Difesa, Bob Gates, il capo di stato maggiore, Peter Pace, il comandante regionale del medio oriente, William Fallon, e, ovviamente, Petraeus e Crocker. Dopo un briefing con i suoi, Bush ha incontrato il primo ministro iracheno, Nouri al Maliki, il presidente Jalal Talabani e i vicepresidenti Adel Abdul Mahdi e Tareq al Hashemi. Prima di ringraziare i soldati e parlare alle truppe, Bush ha incontrato anche i capi delle tribù sunnite della zona, gli ex nemici ora diventati alleati contro al Qaida e aspiranti sodali del governo di Baghdad.
La resistenza al Senato
Il lato iracheno del viaggio di Bush è stato volto ad accelerare la riconciliazione tra i sunniti e il governo guidato dagli sciiti. Bush e i suoi temono che la cautela di Baghdad possa compromettere il successo militare ottenuto nelle zone sunnite e, quindi, affievolire la fresca volontà delle tribù di partecipare alla costruzione di un nuovo Iraq. Andare ad Anbar, anziché a Baghdad, è stato un segnale di attenzione nei confronti dei sunniti, ma anche di pressione su Maliki. Il viaggio, però, ha anche un aspetto di pura politica interna americana. Ufficialmente, sia la Casa Bianca sia i leader del Partito democratico aspettano le relazioni di Petraeus e Crocker prima di decidere che cosa fare. La sensazione è che Petraeus chiederà a Bush di prolungare il “surge”, ovvero l’attuale livello di truppe, fino alla prossima primavera. Bush ovviamente è d’accordo. Al momento pare difficile che i repubblicani possano perdere pezzi, visto che in Iraq si cominciano a intravedere i primi risultati e i generali chiedono di restare. I candidati repubblicani alla Casa Bianca, peraltro, restano solidi sostenitori della nuova strategia. I democratici si trovano in una situazione di maggiore imbarazzo. Un mese e mezzo fa erano convinti di poter arrivare allo showdown di settembre con un altro fallimento militare di Bush. In quell’occasione rifiutarono le ipotesi di compromesso bipartisan offerte da un paio di senatori repubblicani. Ora, invece, sono disponibili a rivedere la strategia, visto che un consistente gruppo di propri deputati eletti in circoscrizioni conservatrici comincia a rumoreggiare e i sondaggi d’opinione hanno invertito la tendenza (l’ultimo di Zogby dice che il 54 per cento degli americani ora crede che la guerra possa essere vinta). I candidati democratici alla Casa Bianca, con diverse modulazioni, sono ancora favorevoli al ritiro ordinato e graduale, ma la partita si gioca al Senato. I democratici possono contare su 51 senatori, ma per cambiare rotta hanno bisogno di almeno altri nove voti per superare l’ostruzionismo. E, poi, di altri sette per superare il veto di Bush.

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