La prova che la tesi di “The Israel Lobby and U.S. Foreign Policy” sia, a essere buoni, un ciccinin esagerata è che l’edizione italiana di questo libro, appena uscito in America e scritto dai due professori John Mearsheimer e Stephen Walt, l’uno dell’Università di Chicago e l’altro di Harvard, sarà pubblicata il 28 settembre dalla Mondadori, la casa editrice di proprietà di Silvio Berlusconi, l’uomo politico salutato ufficialmente dal Parlamento israeliano come uno dei più grandi amici di Israele. “The Israel Lobby” è la versione ampliata, riveduta e corretta di un paper accademico, poi pubblicato dalla London Review of Books, che i due luminari americani scrissero un anno e mezzo fa. Quella ricerca accusava la lobby israeliana d’America di “manipolare il sistema politico americano”, di “manipolare la stampa” e di essere “de facto un agente al servizio di un governo straniero”. Il linguaggio incendiario del paper aveva creato un dibattito serratissimo e una condanna pressoché unanime in America, con le notevoli eccezioni dell’intellettuale liberal Tony Judt, della rivista politico-letteraria New York Review of Books e del miliardario filantropo George Soros. Altre recensioni entusiastiche sono arrivate dai Fratelli musulmani egiziani e dall’ex capo del Ku Klux Klan David Duke, il quale ha addirittura salutato il testo come una “nuova Dichiarazione di Indipendenza americana”. Nella versione ora in libreria, il testo è stato leggermente ripulito e ammorbidito, anche se Ira Stoll del New York Sun fa notare come, in fondo, i due professori non siano andati molto più in là dall’aver scritto la parola “lobby” con la elle minuscola, anziché con la maiuscola del testo originale.
La versione edulcorata di “The Israel Lobby” contribuirà a sdoganare la tesi cospiratoria nei circoli culturali e giornalistici di New York e Washington, anche se è già partita una campagna per il boicottaggio, ma un’attenta lettura del libro rivela che sarà comunque difficile giudicare questo testo con il metro della correttezza politica. Il settimanale New Yorker ha schierato il suo direttore, David Remnick, per provarci. Remnick s’è sforzato di trovare una qualche angolatura positiva e non l’ha trovata. Ha voluto, però, specificare che i due professori “non sono razzisti”, anche se non ha potuto fare a meno di sottolineare l’implausibilità della tesi di fondo: “Mearsheimer e Walt vogliono farci capire che se Israele e i palestinesi raggiungessero la pace, Bin Laden tornerebbe al business familiare nel campo delle costruzioni”.
I due professori, infatti, sostengono che il terrorismo islamista sia una diretta conseguenza dell’occupazione dei territori arabi in seguito alla guerra del 1967, non ricordando, come invece ricorda il New Yorker, il terrorismo arabo precedente a quella data, le guerre di aggressione contro Israele, il non riconoscimento dello stato ebraico e, particolare non secondario, che Bin Laden ha fornito altre motivazioni per giustificare il suo jihad contro “crociati ed ebrei”.
In Italia il libro uscirà con un bizzarro titolo anglo-italiano, “La Israel lobby”, probabilmente perché nella nostra lingua “la lobby israeliana” non è così evocativo. Il titolo più corretto, in realtà, sia in inglese sia in italiano, sarebbe stato “La lobby ebraica”, ma se nemmeno gli autori hanno scelto di chiamarlo così, la mancanza di coraggio non può essere imputata alla Mondadori. “La Israel lobby”, dunque. La tesi è che in America esiste un potente, affiatato e minaccioso gruppo di persone di destra e di sinistra, anzi tradizionalmente più di sinistra, che fa gli interessi dello stato ebraico anziché quelli degli Stati Uniti. “Ora che la Guerra fredda è finita, Israele è diventato uno svantaggio strategico per gli Stati Uniti – scrivono – Eppure nessun aspirante politico lo dirà mai in pubblico e nemmeno avanzerà l’ipotesi”.
“Gli Stati Uniti hanno un problema terrorismo – scrivono – in buona parte perché sono stati così a lungo sostenitori di Israele”. Il senso della proposta dei due teorici della scuola realista di politica estera, la più di moda oggi in America e in Europa, è più che chiaro: Israele non ci serve, anzi è dannoso, abbandoniamolo, così finalmente gli islamisti se ne staranno buoni. Una specie di Monaco 1938, con Olocausto assicurato, in un colpo solo.
Gli appartenenti a questa lobby di politici, giornalisti, editori e analisti, secondo i due autori, sono guidati da una “doppia lealtà”: sono americani, ma in realtà lavorano per il bene di Israele. I due professori si sforzano di spiegare che l’appartenenza alla lobby non è religiosa né etnica, ma soltanto politica. Ma il motivo per cui questa potenza di fuoco sia leale proprio a Israele e non, per esempio, alla Danimarca o all’Ungheria, alla fine non può che essere l’ebraismo. Sennò perché notare, come hanno fatto i due luminari, che un altro appartenente alla casta pro Israele, il leader democratico Howard Dean, ha “la moglie ebrea e anche i suoi figli sono stati cresciuti come ebrei”. Antisemitismo? No, soltanto legittima critica alle politiche israeliane e pro israeliane.
Abraham Foxman, battagliero boss dell’Anti Defamation League, è uno dei tanti che in questi anni ha provato a spiegare proprio questo, cioè che l’antisionismo è il nuovo antisemitismo, una forma politicamente corretta e più facile da portare in società del vecchio e screditato odio nei confronti degli ebrei. Foxman, proprio in questi giorni, ha pubblicato un suo libro, “The Deadliest Lies: The Israel Lobby and the Myth of Jewish Control”, dedicato proprio a smontare le accuse di John Mearsheimer e Stephen Walt. In questo caso non si hanno notizie di prossime edizioni italiane.
Secondo i due professori, Israele è la causa di tutti i mali nel medio oriente e le sue politiche sono una minaccia alla sua stessa esistenza. Senza il sostegno della lobby americana, scrivono Mearsheimer e Walt, si risolverebbe in un battibaleno il conflitto israelo-palestinese, il caos iracheno, le tensioni con l’Iran e lo scontro di civiltà avviato dai jihadisti. Mearsheimer e Walt accusano Israele e la sua lobby di Washington di aver fatto fallire i negoziati di pace del 2000, dimenticandosi che il rifiuto di siglare il patto fu di Yasser Arafat, non di Ehud Barak, tantomeno di Bill Clinton. I due prof, però, danno la colpa ai due grandi tessitori clintoniani, Dennis Ross e Martin Indyk. Nel libro c’è una citazione di un politico palestinese, che i due professori sembrano condividere, secondo cui a Camp David gli arabi erano costretti a “negoziare con due team israeliani, uno che esponeva la bandiera israeliana, l’altro quella americana”.
Il giudizio su Hezbollah è benevolo e non si fa cenno alle fatwa anti americane e anti israeliane del loro leader Hassan Nasrallah, il quale per certi versi può anche essere considerato un sionista visto che, nel 2002, disse che “se si radunassero tutti in Israele, ci toglierebbero dagli impicci di andare a cercarli in giro per il mondo…” (citazione non contenuta nel libro). La guerra in Libano ovviamente è stata avviata da Israele (e da chi se no?) Gli iniziali razzi islamisti, lanciati sulle città ebraiche, in realtà secondo i due prof non avevano l’obiettivo di uccidere ebrei, piuttosto di distrarre l’attenzione degli israeliani che si preparavano a un raid per liberare i soldati rapiti da Hezbollah. I due professori sostengono anche che negli ultimi anni l’Iran abbia fatto molti passi in avanti per migliorare la relazione con Washington, passi resi vani dalla solita potente e sinistra lobby israeliana in America: “Non ci fosse la lobby – scrivono – ci potrebbe essere già un trattato di pace tra Israele e la Siria”. Anche l’Arabia Saudita farebbe parte di questo immaginifico asse del bene che lotta contro la malvagità israeliana e della sua lobby americana.
Ancora. Gli attacchi terroristici contro Israele “hanno fatto relativamente poco male all’economia israeliana” (Ira Stoll ricorda che nel 2002 i turisti stranieri sono stati 718 mila, due milioni in meno rispetto al 2000). John Mearsheimer e Stephen Walt sostengono che il crescente antisemitismo della popolazione musulmana in Europa e in occidente sia provocato dalle politiche d’Israele. Come scrive il New Yorker, i due professori non sono certamente razzisti né antisemiti, però l’idea che la colpa dell’antisemitismo sia da attribuire agli ebrei non è proprio tra le più eleganti. A quel punto, scrivendo queste cose, diventa sospetto tutto, ogni singola riga del loro trattato. Sempre Ira Stoll, per esempio, fa notare che i due professori scrivono che nell’Olocausto sono morti “quasi sei milioni di ebrei”, non “sei milioni” come dicono gli storici. Anche scrivere che “in questo momento l’esistenza di Israele non è in pericolo” pare una verità poco accademica, visto che il presidente iraniano Ahmadinejad un giorno sì e l’altro pure annuncia di volerlo cancellare dalla cartina geografica. Del resto, secondo Mearsheimer e Walt, l’esistenza di Israele non è stata in pericolo nemmeno durante le guerre del 1948, del 1967 e del 1973. “Gli arabi – scrivono – non stavano tentando di distruggere Israele”. E se i loro leader, invece, dicevano apertamente il contrario di ciò che scrivono oggi i due professori, in realtà si trattava soltanto di “retorica elaborata per pacificare il loro pubblico”.
Il centro del male è l’Aipac, l’American Israel Public Affair Committee. L’Aipac è, appunto, “una lobby americana pro Israele”, come si legge nella home page del suo sito. “Non sono una cabala, non c’è niente di segreto – ha confermato Walt al New York Times – sono una lobby come tante altre del sistema politico americano. C’è solo che sono molto bravi”. L’accusa è che l’Aipac, di fatto, conduca la politica estera americana. Una prova visibile si è avuta a marzo, quando all’assemblea annuale hanno partecipato tutti i candidati alla Casa Bianca, democratici e repubblicani e il vicepresidente Dick Cheney. In quell’occasione, uno dei decani del Partito democratico, Tom Lantos, aveva anche annunciato la presentazione di una proposta di legge per inasprire le sanzioni americane e internazionali nei confronti dell’Iran. Accanto all’Aipac, gli altri agenti del complotto israeliano contro gli interessi dell’America sono i neoconservatori, l’Anti Defamation League, gli evangelici, vari centri studi (il conservatore American Enterprise Institute e il liberal Brookings Institution) e chiunque provi a ribattere alle critiche dei professori con l’accusa di antisemitismo. “Sì, quel testo è antisemita”, ha scritto sul Washington Post Eliot Cohen, della Johns Hopkins University. L’idea che i gruppi pro israeliani “abbiano un programma comune e che la nostra politica su Israele e medio oriente sia un prodotto della loro influenza è semplicemente sbagliato”, ha scritto l’ex segretario di Stato di Ronald Reagan, George P. Shultz, nella prefazione al libro di Foxman. Secondo Shultz, “è una teoria del complotto pura e semplice e i professori di grandi università dovrebbero vergognarsi di promulgarla”. Mearsheimer e Walt non si vergognano affatto delle loro tesi e registrano con disappunto le numerose telefonate che in questi giorni gli comunicano la cancellazione dei dibattiti pubblici sul loro libro a Chicago, a New York, a Washington. Un’ulteriore conferma della potenza della lobby ebraica pro Israele.
1 Settembre 2007