New York. Al Gore ha vinto il premio Nobel per la pace per il suo impegno in difesa della Terra, dopo aver conquistato il premio Oscar e qualsiasi trofeo possibile, tranne la presidenza. “Buongiorno, mi chiamo Al Gore e mi è capitato di essere il prossimo presidente degli Stati Uniti” è la sua battuta dal giorno in cui per un pugno di schede malperforate in Florida ha perso la Casa Bianca a vantaggio di George W. Bush.
Una sconfitta fantozziana, quella, visto che Gore era il vicepresidente di un’Amministrazione, quella di Bill Clinton, che per otto anni aveva guidato l’America a un incredibile benessere economico (ma anche a una sottovalutazione di Osama bin Laden). Dopo la sconfitta, Gore se ne è stato in disparte, è ingrassato, si è fatto crescere la barba, è tornato in Tennessee. La passione ambientalista gli ha fatto perdere rigidità e cautele, e lo ha liberato del peso di una vita progettata per diventare commander in chief. E’ nato il nuovo Gore, il guru Gore, costruito sulle solide basi della sua antica predisposizione a guardare avanti e sulla sua “vision thing”, come dicono quelli che lo chiamano “Goracle”, “l’oracolo Gore”. Malgrado il disastro del 2000, molti lo vedrebbero di nuovo in lizza per la Casa Bianca. Lui dice che non ci pensa, ma non lo esclude. L’idea è che se Hillary Clinton e Barack Obama inciampassero – cosa oggi improbabile – allora arriverebbe lui a salvare dopo la Terra anche l’America.
Il ritorno di Gore non sarebbe una novità, anzi ricorda il precedente di Richard Nixon, sconfitto da vicepresidente nel 1960 contro John Kennedy, poi fermo un turno e infine eletto nel 1968 grazie al discontento per la guerra in Vietnam. Gore oggi sarebbe il candidato pacifista, perché a differenza di Hillary è stato contrario all’intervento del 2003, sebbene abbia cominciato a dirlo un anno dopo. Ai tempi di Bill, invece, è stato un superfalco e sponsor di quell’Iraqi Liberation Act che ha cambiato la politica americana sull’Iraq, spostandola dal “contenimento” al “cambio di regime”. Nel 2000, inoltre, si è scelto come vicepresidente Joe Lieberman, il senatore che sull’Iraq è più bushiano di Bush, tanto che è stato cacciato dal partito.
Ciò che probabilmente la giuria del Nobel non sa, e che certamente non si leggerà negli amorevoli ritratti che oggi gli saranno dedicati, è che Al Gore è il politico che da più tempo e con più rigore s’è battuto per cambiare il regime di Saddam. Gore è stato il più feroce accusatore di Bush senior, Dick Cheney e James Baker per non aver marciato fino a Baghdad quando nel 1991 si è avuta l’occasione di farla finita con il dittatore arabo. Gore ha spiegato agli americani la natura del regime baathista, la pericolosità delle armi di sterminio a sua disposizione e i legami con il terrorismo internazionale. E, ben prima di Donald Rumsfeld, ha sostenuto i dissidenti iracheni guidati da Ahmed Chalabi. Seguono pezze d’appoggio. 23 settembre 2002, in California: “Sappiamo che Saddam ha nascosto rifornimenti segreti di armi chimiche e biologiche in tutto il paese”. 12 febbraio 2002, al Council on Foreign Relations: “Ci sono ancora governi che possono procurarci grandi danni. E ci sono motivi chiari che uno di questi governi in particolare rappresenti esso stesso una minaccia virulenta di tipo speciale: l’Iraq. (…) Per quanto mi riguarda la resa dei conti finale con quel governo deve essere presa in considerazione. Per come la penso io, la questione vera non è di principio, ma d’esser certi che questa volta chiuderemo la questione alle nostre condizioni”.
11 ottobre 2000, dibattito presidenziale: “Voglio andare oltre le sanzioni, voglio dare un forte sostegno ai gruppi che stanno cercando di destituire Saddam”. 28 giugno 2000, incontrando Ahmed Chalabi: “In medio oriente non ci può essere pace finché Saddam si trova nella posizione di brutalizzare il suo popolo e di minacciare i suoi vicini”. 17 gennaio 1993, durante il secondo raid aereo americano sull’Iraq in 5 giorni: “Avremo problemi con l’Iraq fin quando Saddam e il suo regime saranno al potere”. 23 maggio 2000, al Los Angeles Times: “Dobbiamo fare in modo che sia chiaro che la nostra politica è quella di vedere la fine di Saddam”. Settembre 1992, New York Times: “Nell’aprile del 1989, un esperto di proliferazione nucleare del Dipartimento di Energia ha riportato notizie di intelligence secondo cui l’Iraq ha in corso un programma per costruire la bomba atomica. Nello stesso mese, la Cia ha detto al segretario di stato, James Baker, che l’Iraq si stava clandestinaente procurando tecnologia nucleare”. 10 maggio 1992, al Larry King Show sulla Cnn: “Bush s’è girato dall’altra parte quando ci sono stati ripetuti incidenti di terrorismo in cui l’Iraq ha avuto una parte, terroristi che operano apertamente a Baghdad, e ripetuti avvertimenti dai nostri servizi di sicurezza nazionale che dicevano all’Amministrazione che Saddam stava lavorando a piani per sviluppare armi nucleari, armi chimiche e altre armi di distruzione di massa”. 26 settembre 1991, articolo sul New York Times: “Non sono d’accordo con la politica del presidente su un punto fondamentale, sulla sua persistente idea di Saddam come un elemento accettabile del paesaggio (…) Prima o poi se ne andrà. Prima è meglio. E con lui se ne deve andare anche l’intero sistema di potere baathista, viceversa sostituiremmo un personaggio brutale con un altro”. A Oslo, però, non l’hanno premiato per questo.
Christian Rocca
13 Ottobre 2007