Camillo di Christian RoccaHollywood Act

Il 12 novembre 2001, due mesi dopo l’attacco islamista all’America, lo stratega politico di George W. Bush, Karl Rove, è volato a Beverly Hills per incontrare i cinquanta principali produttori di Hollywood e per discutere dei modi in cui l’industria cinematografica avrebbe potuto diffondere il messaggio di patriottismo, coraggio e tolleranza che il presidente aveva in mente di far arrivare agli americani e al resto del mondo. Rove e i produttori non hanno parlato di contenuti dei film né di propaganda bellica, ma l’incontro è sembrato molto simile a quello convocato dopo l’attacco giapponese a Pearl Harbor che convinse gli studio hollywoodiani a produrre film patriottici e a sostegno delle ragioni morali dell’intervento americano nella Seconda guerra mondiale.
All’incontro del 2001, Rove ha spiegato che la guerra non è contro l’islam, ma contro i terroristi. Jack Valenti, il capo della Motion Picture Association, ha promesso di aiutare “a raccontare come gli americani siano il paese più generoso del mondo”. L’interesse era comune. Bush aveva bisogno di una campagna di relazioni pubbliche con effetti speciali, l’industria hollywoodiana di riprendersi dal colpo subito dagli attacchi islamisti, perché costretta a mettere da parte alcuni film come “Danni Collaterali” di Arnold Schwarzenegger e addirittura un episodio della serie tv Friends ambientato in un aeroporto. Sei anni dopo Hollywood si è ripresa alla grande, Bush è ai minimi storici, malgrado la trionfale rielezione del 2004.
L’episodio di Rove a Beverly Hills è stato al centro di tre puntate della serie tv più liberal della passata stagione, “Studio 60”, dove però una delle protagoniste è una fantastica e intelligente attrice apertamente cristiano-evangelica. L’incontro di Rove ora viene in mente perché nelle sale sono usciti due film sulla guerra al terrorismo che, in modo opposto, fanno capire il ruolo di Hollywood nell’America post 11 settembre. Il primo è “The Kingdom”, con Jamie Foxx, la storia di una squadra di agenti Fbi che va in missione in Arabia Saudita per eliminare uno dei capi di al Qaida. E’ la classica battaglia del Bene contro il Male, raccontata senza pregiudizi e senza concessioni al politicamente corretto, ma perché il Bene prevalga gli agenti devono combattere le resistenze interne al campo dei buoni e superare le antiche connessioni politiche ed economiche fra Washington e Riad.
Il secondo film è “In the Valley of Elah” diretto da Paul Haggis e interpretato da Tommy Lee Jones, Charlize Theron e Susan Sarandon. Qui il protagonista è un reduce del Vietnam, il cui figlio è in Iraq dove è testimone di brutalità di ogni tipo commesse dall’esercito americano. Di ritorno da Baghdad, il figlio scompare, viene trovato morto fuori da una base in Texas, ucciso per caso dai suoi ex commilitoni. C’è un grande sventolare di bandiere, di senso dell’onore e di patriottismo, ma l’idea del film è che esistono soldati all’antica, perbene e servitori della patria (malgrado la guerra fosse quella un tempo aborrita del Vietnam) e soldati senza ideali, assassini e drogati impegnati in una guerra ingiusta e fallimentare. E’ lo stesso schema dei tanti film di George Clooney o di Robert Redford, dove ci sono sempre multinazionali ciniche o spietate centrali di intelligence contro le quali si battono coraggiosi e solitari eroi americani. Il bene trionfa sempre sul male, c’è sempre un’America buona che prevale su quella cattiva come nei sogni di Walter Veltroni.
“Rendition” e “Lions for Lambs” sono altri due film non ancora usciti nelle sale, ma anch’essi centrati sulla guerra al terrorismo e sulla battaglia di un’America buona contro una cattiva, impegnate entrambe in una più ampia battaglia contro il terrorismo. In “Rendition”, con Jake Gyllenhaal, l’eroe è un agente antiterrorismo Cia travolto dai dubbi sulle tecniche di interrogatorio adottate per far parlare una specie di Abu Omar, mentre “Lions for Lambs” con Redford, Tom Cruise e Meryl Streep, racconta la relazione tra la l’Afghanistan, l’informazione e la politica.
Ma se questo è da sempre il mainstream hollywoodiano rintracciabile in quasi tutti i film, da “Spider Man” alla trilogia di Jason Bourne, dopo l’11 settembre si sono moltiplicati film con meno chiaroscuri e più felicemente patriottici. La serie tv “24”, intanto, citata in ogni dibattito presidenziale per descrivere le scelte antiterroristiche “alla Jack Bauer” che il prossimo presidente dovrà affrontare. E poi la saga “300” sull’eroismo degli spartani che fermarono l’invasione persiana nella battaglia di Termopili, o “Hidalgo” con Viggo Mortensen che era la storia di una corsa di cavalli nel deserto saudita alla fine dell’Ottocento e una metafora sulla libertà americana e l’oppressione araba. C’è stato anche il filone di film sulle crociate, come “Kingdom of Heaven” di Ridley Scott, ma è stata soprattutto la serie di film tratti dai grandi romanzi di tema cristiano, dal “Signore degli Anelli” alle “Cronache di Narnia” e ora l’epica eroica di “Beowulf” che ispirò Tolkien, a far ipotizzare uno spostamento ideologico di Hollywood. In realtà la spinta non è affatto ideologica, è economica: i film fantasy di questi ultimi tempi non ci sarebbero stati senza il clamoroso successo del “Signore degli Anelli”. Così come la scorrettezza politica di “Molto incinta” e “Superbad” è dovuta più a una reazione di pelle al pensiero dominante che a un consapevole manifesto ideologico. Hollywood è di sinistra, anche se con notevoli eccezioni. Ma è soprattutto un’industria, attenta a offrire prodotti diversi. Se Jonathan Demme ha girato un film su Jimmy Carter – “il suo film più di paura dopo ‘Il silenzio degli innocenti’”, secondo il sarcastico Weekly Standard –  dall’altra parte “Il buio nell’anima” con Jodie Foster nella parte di una giornalista iperliberal della Npr che si trasforma in spietata giustiziera della notte potrebbe far pensare a una deriva di estrema destra di Hollywood. Ma, appunto, “Il giustiziere della notte” con Charles Bronson è del 1974.
    Christian Rocca

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