Camillo di Christian RoccaLa casalinga Hillary piace più ai neocon che ai radical

New York. Il fenomeno è mica male: ci sono grandi commentatori politici che non lesinano complimenti alla candidata alla Casa Bianca, Hillary Clinton, così come ovviamente si leggono anche opinioni durissime contro l’ex first lady. Sembrerebbe tutto normale, ma non lo è perché i complimentosi sono conservatori, anzi neoconservatori, mentre i critici sono liberal e di sinistra. Negli ultimi giorni le grandi firme progressiste del New York Times, spalleggiate dal rumoroso movimento internettiano dei netroots, si sono improvvisamente stufate di Hillary Clinton e della sua campagna presidenziale, raccontata dalle cronache politiche come “perfetta” e “senza errori”, al contrario di quelle dei concorrenti democratici. Non è così, dicono in coro i grandi commentatori liberal, da Frank Rich a Maureen Dowd, da Gail Collins a E.J. Dionne, quest’ultimo sul Washington Post. Hillary è troppo cauta (Rich), equivoca (Collins), raccomandata (Dowd). Dall’altro lato, i neoconservatori David Brooks e Bill Kristol, su Times e Weekly Standard, lodano la sua serietà e la sua saggezza, in particolare sul piano sanitario e sull’opposizione al disfattismo pacifista. Brooks la paragona a Harry Truman, icona democratica dei neocon. Lo stesso Bush ha detto all’autore di “The Evangelical President” che Hillary è “un candidato formidabile” e che, da presidente, sarà una nuova Eisenhower. “E’ diventata la pin-up della destra repubblicana”, ha scritto Andrew Sullivan.
Nessuno di loro voterà Hillary, così come nessuno degli opinionisti liberal che ora la criticano sceglierà il candidato repubblicano nel caso lei vincesse le primarie, però il capovolgimento di fronte intellettuale è interessante per capire le dinamiche della politica americana futura. Hillary oggi è la candidata che fa da argine al nuovo populismo pacifista ed economico del Partito democratico. Qualcuno azzarda che stia conducendo una campagna da “incumbent”, quasi fosse lei oggi alla Casa Bianca. Altri si spingono a dire che è una “George W. Bush Democrat”, una democratica tendenza Bush. Uno di questi “altri” è Barack Obama, il quale ha già detto pubblicamente che per lui Hillary è “una Bush o una Cheney light”, una versione soft dei due principi del male repubblicani.
Il malcontento dell’intellighenzia liberal nei confronti di Hillary non è nuovo, a causa delle sue posizioni falche sull’Iraq, per il suo centrismo sociale, per la sua tendenza a non considerare nemici i repubblicani. I salotti intellettuali newyorchesi le preferiscono il neopopulista John Edwards o, in seconda battuta, il nero Barack Obama. Il dissenso è diventato fragoroso all’indomani del successo mediatico di Hillary per il piano di riforma della sanità americana. Subito dopo, Hillary ha detto, in diretta tv, che difficilmente si potranno ritirare le truppe dall’Iraq prima del 2013. Poi, al Senato, ha votato una mozione che chiede a Bush di considerare terrorista la Guardia rivoluzionaria iraniana.
I commentatori di sinistra si sono scatenati. Frank Rich ha scritto che la politica di Hillary potrebbe far perdere ai democratici un’elezione che sembra impossibile possa sfuggire, proprio come successe con Al Gore. Maureen Dowd ha aggiunto che senza il nepotismo della politica americana, oggi Hillary sarebbe candidata alla presidenza di un piccolo college femminile. Gail Collins l’ha accusata di non aver difeso la normalità della famiglia omosessuale. L’insopportabile inevitabilità della vittoria clintoniana è sintetizzata dal critico culturale di New Republic, Leon Wieseltier, il quale ha paragonato Hillary a una casalinga rompiballe che ha visto una cosa che vuole a ogni costo e che non smette di rompere finché non le si dice “ok, va bene, prendila, prenditi questa cavolo di presidenza, ma ora lasciaci in pace”.
    Christian Rocca