In viaggio Vecchi traumi, nuove ossessioni e sensibilità letterarie negli Stati Uniti d’oggi
Figli a ogni costo, sogno americano
Il boom della maternità per guarire le ferite di un Paese sempre in guerra
di DACIA MARAINI
(Il Corriere della Sera)
New York. Novembre. La trovo cambiata dall’anno scorso: un clima piu teso, più frettoloso, come se tutti corressero verso qualcosa di indefinito e increscioso, un dovere da compiere nel più breve tempo possibile. Alcuni, quelli che sembrano avere conquistato il tempo della contemplazione, sono giovani che hanno perso il lavoro e sono finiti barboni. Fa una certa impressione vederli tendere la mano col bicchierino di carta in cui i passanti gettano distrattamente una monetina.
Anna Guaita, che è qui corrispondente per Il Messaggero, mi fa notare che si vedono, per la strada, sugli schermi, sui rotocalchi sempre più donne giovanissime, meravigliosamente gravide, che ostentano il ventre proteso come una carta di identità. «Pare che dal 2001 il numero dei bambini di età inferiore ai cinque anni sia aumentato del 32 per cento, non è strano?». La maternità fa la sua apparizione, prepotente, anche nelle più popolari serie tv. «Il mondo dello spettacolo, la moda e la grassa Hollywood sembrano in preda a una nuova frenesia della procreazione».
Ma c’è qualcuno che guarda a questo fenomeno con occhio critico? E lei mi fa il nome di una sociologa che interviene spesso sui giornali con sferzante ironia. Si tratta di Susan Faludi, già nota da noi per un bel libro in difesa delle donne che si chiama
Backlash (in italiano Contrattacco, Baldini & Castoldi). Nel suo nuovo libro The Terror Dream, Susan Faludi scrive che si avverte uno sforzo concentrico per promuovere l’idea che le donne vogliano e debbano procreare, come soluzione per consolare la nazione. Consolare da cosa? «Per la Faludi è chiaro: da una micidiale guerra sbagliata, da una sostanziale incapacità di affrontare il terrorismo, dallo scoprirsi odiati, accusati di infamie quali la tortura e la corruzione». «E la maternità riesce a guarire queste ferite?». «Lei sostiene che dopo gli attacchi del 2001 si è tentato di ricreare una immagine tipo anni Cinquanta: uomini forti e coraggiosi che vanno a combattere e donne dolci e materne che li aspettano a casa. Un ritratto edulcorato che chiama "il nuovo sogno americano"».
Giampaolo Pioli, presidente dell’Associazione corrispondenti italiani, mi porta in una sala affollata dove si discute delle responsabilità della stampa sui cambiamenti di costume: fino a che punto è lecito correre dietro alle notizie di cronaca nera senza contribuire a diffondere paura e morbose ossessioni sessuali? La parola «Auditel» giustifica lo scialo di immagini violente che tutti i giorni si riversano sullo schermo? E a che punto si deve fermare il diritto di informazione di fronte alla pietà e al pudore? E il successo può essere la sola legge su cui regolare la programmazione televisiva o ci vorrebbe un progetto editoriale di grande respiro?
Qualcuno ha ricordato le novità che si stanno insinuando fra pubblico e televisione: nomi come Blog, MySpace, YouTube, rivelano la presenza di una rete globale e rapidissima che crea immensi spazi di libertà, ma anche cade facilmente nel personalismo, nell’isteria collettiva, nell’esibizione di infermità e perversioni sessuali. E che dire del popolo degli sms, capace di radunare in mezz’ora una folla di migliaia di persone dentro una piazza, solo per il piacere di farlo? Si chiamano flash meetings. C’è da avere paura o dobbiamo considerarla una conquista al servizio dei più?
Giovanna Botteri in gran forma ci ricorda che la guerra dell’Iraq è costata a ogni famiglia americana ben 20mila dollari. Con quei soldi si sarebbe potuto affrontare la penosa questione dei servizi sanitari pubblici, la crisi delle scuole statali, e tante altre cose che non funzionano in questo Paese ricco e potente. Giulio Borrelli, Gerardo Greco e Raffaello Siniscalco raccontano le preoccupazioni per la mancanza di una visione complessiva e programmata del meraviglioso mezzo televisivo.
Il giorno dopo sono all’Università di Vassar che si trova a Poughkeepsie. Per andarci si prende un treno vecchio e sgangherato che costeggia il fiume Hudson dagli alberi dorati e rossi, bellissimi dentro la bruma di una mattina fredda e lucida. Se guardi dal finestrino non vedi neanche la terra, sembra di correre direttamente sull’acqua. Lo sguardo incontra vecchie fabbriche abbandonate dall’altra parte del fiume, case dal tetto sfondato, un castello addirittura, coi merli e le torrette, completamente scoperto e svuotato come il set abbandonato di un film dell’orrore. Qualche barca si muove lenta inalberando vele lilla e bianche.
Da vicino l’acqua sembra sporca e grumosa. Di lontano — e il fiume in certi momenti diventa quasi lago — è di un bellissimo color verde oliva, con qualche cresta candida che dà un tocco di allegria alla giornata plumbea.
Al Vassar College, che mi ricorda romanzi spiritosi e provocatorii come Il gruppo e
Memorie di una educazione cattolica di Mary Mc Carthy, mi aspetta una sala di studenti guidati da una ferrea e brillante insegnante di cinema e letteratura italiana, Rodica Blumenfeld. Si parla di emigrazione ed immigrazione. Chi sa raccontare le novità? Gli scrittori in Italia sono consapevoli dei grandi cambiamenti che stiamo vivendo? E le scrittrici?
Il giorno dopo sono al Wheaton College, nel Massachussetts. Fra boschi e pozze d’acqua. Qui parlo di letteratura al femminile. Tommasina Gabriele, figlia di emigrati poveri, è oggi una insegnante molto stimata nella facoltà di umanistica. Ha un marito americano e due figlie che ormai non parlano più l’italiano «anche se ogni anno le porto a rivedere i parenti in Italia». Gli studenti affollano la sala e fanno domande appassionate. Non sembrano affatto immotivati, come si sostiene da molte parti, privi di valori e di curiosità. Insistono sui rapporti fra scrittura e responsabilità sociale. Chiedono se la scrittura mimi la vita o la rappresenti. E se il linguaggio abbia una sua autonomia riconosciuta rispetto ai canoni tradizionali.
Torno a New York che avevo lasciato nella nebbia e la trovo pulita e spazzolata da un vento ghiacciato. Gli occhi si rivolgono verso l’alto ad ammirare la bellezza esplosiva di questa città difficile e potente. Uno si chiede perché i grattacieli newyorkesi sono così belli e commoventi, mentre altrove diventano paratie che chiudono le vedute e distruggono l’armonia dei paesaggi. Credo che la risposta sia una sola: qui i grattacieli sono assolutamente necessari. Lo spazio scarso ha costretto a costruire verso l’alto. La necessità ha creato la bellezza. Che nasce proprio dall’urgenza e dalla razionalità e non dalle elucubrazioni estetiche di qualche pretenzioso architetto.