New York. Paul Wolfowitz torna al governo, Donald Rumsfeld spiega come si defenestrano i dittatori e Karl Rove dispensa consigli a destra e a manca su come vincere le elezioni del 2008. I “cattivi” per antonomasia sono di nuovo al centro del dibattito politico americano e anche Hillary Clinton, la “cattiva” di sinistra, comincia a essere criticata dal mondo liberal non solo per le sue posizioni e i suoi voti su Iraq e Iran da “Bush e Cheney light” (copyright Barack Obama), ma anche per aver affidato la guida della sua squadra di consiglieri di politica estera a Lee Feinstein, uno studioso di affari internazionali considerato una specie di versione di sinistra di Wolfowitz.
Gli uomini chiave della prima Amministrazione Bush sembravano destinati all’oblio una volta usciti dal governo, invece in pochi giorni sono improvvisamente rispuntati uno dopo l’altro. Karl Rove, ex consigliere strategico della Casa Bianca, ora scrive editoriali per il conservatore Wall Street Journal sul futuro del Partito repubblicano e una rubrica per il settimanale liberal Newsweek, dove ha elencato ai candidati del suo partito tutti i modi per battere Hillary alle elezioni generali di novembre. Sul Financial Times di ieri, invece, i consigli di Rove sono rivolti a Barack Obama, sotto forma di trattato strategico per vincere il caucus in Iowa, l’unica chance del senatore nero per fermare la corsa di super Hillary.
Nel weekend, Rove ha destato scalpore raccontando a Charlie Rose della Pbs che nel 2002 in realtà è stato il Congresso democratico, non Bush, ad affrettare i tempi per giungere il prima possibile a un voto sulla guerra in Iraq. La sua ricostruzione degli eventi, prontamente rigettata dai democratici e anche da qualche repubblicano, racconta che la Casa Bianca non voleva il voto così presto perché “avrebbe accelerato le cose” ben prima che Bush potesse assemblare un’ampia coalizione internazionale. Secondo Rove, i leader democratici volevano un voto immediato per togliere la questione dall’imminente campagna elettorale di metà mandato 2002, in quanto ritenevano che le eventuali timidezze liberal avrebbero potuto avvantaggiare i repubblicani.
L’ex capo del Pentagono, Donald Rumsfeld, domenica è intervenuto con un breve e puntuale saggio ospitato dal Washington Post sul tema “il modo intelligente per sconfiggere i tiranni come Chávez”, lui che ha abbattuto abbastanza brillantemente Saddam Hussein, ma che è rimasto impantanato in Iraq anche a causa di una fallimentare strategia post bellica centrata su una presenza militare leggera e sul rientro immediato delle truppe americane. Il paradosso è che proprio adesso che il cambio di rotta iracheno impresso da George W. Bush e David H. Petraeus sta cominciando a dare i primi frutti, il Partito democratico ha scelto come nuovo portavoce delle proprie altalenanti e contradditorie posizioni sulla guerra irachena Ricardo Sanchez, ovvero il generale e stratega militare che per conto di Rumsfeld ha guidato nel 2003 e nel 2004 le truppe americane a Baghdad con i risultati che conosciamo.
La notizia più interessante, però, è il ritorno di Paul Wolfowitz nella squadra Bush, dopo l’uscita dal Pentagono all’inizio del secondo mandato e quella forzosa dalla Banca mondiale a maggio di quest’anno. Il settimanale Newsweek ha saputo che il segretario di stato Condoleezza Rice ha appena offerto all’architetto dell’invasione irachena una delle più prestigiose posizioni del Dipartimento di stato, quella di presidente dell’International security advisor board. La notizia non è ancora ufficiale, ma a Newsweek risulta che Wolfowitz abbia già accettato. L’International security advisor board è un gruppo di consiglieri strategici sui temi del disarmo, delle armi di distruzione di massa e della proliferazione nucleare che ha accesso a rapporti segreti di intelligence. Wolfowitz, dunque, torna a essere il consigliere numero uno sul principale tema di politica estera americana: il nucleare iraniano.
Qualche commentatore democratico, infine, comincia a formalizzare le accuse di falchismo a Hillary Clinton, a partire dalla scelta di nominare Lee Feinstein come suo coordinatore di politica estera e sicurezza nazionale. Feinstein è un esperto del Council on foreign relations, noto per le sue posizioni interventiste nel pieno spirito dell’internazionalismo liberal di Bill Clinton e Tony Blair. Favorevole all’intervento in Iraq e convinto che l’Onu avesse già dato a Washington “sufficiente autorità per entrare in guerra”, Feinstein era certo che in Iraq le forze americane alla fine avrebbero trovato armi di distruzione di massa.
Il fronte pacifista del partito lo considera pericoloso, così come gli isolazionisti repubblicani, mentre ci sono analisti conservatori della Hoover Institution che salutano la sua nomina come una “notizia straordinaria”. Feinstein è l’uomo che ha consigliato all’ex First lady di annunciare che, se eletta presidente, lascerà un buon contingente di truppe americane in Iraq almeno fino al 2013. A lui si deve anche il voto di Hillary per dichiarare la Guardia rivoluzionaria iraniana un’organizzazione terrorista nemica degli Stati Uniti. Questo voto sull’Iran è al centro dello scontro di questi giorni con Barack Obama, il quale accusa Hillary di aver pre-autorizzato Bush e Cheney a bombardare Teheran. Feinstein replica che esiste una terza via tra la corsa alla guerra di Cheney e il non far niente di Obama. Ma è soprattutto un saggio di Feinstein del 2004, pubblicato da Foreign Affairs con il titolo “Il dovere di prevenire”, a preoccupare l’ala pacifista dei democratici. A proposito della dottrina della guerra preventiva di Bush, Feinstein ha scritto che “il problema della strategia preventiva di Bush è che non lo è abbastanza”. Secondo il Wolfowitz di Hillary, “la Comunità internazionale ha il dovere di prevenire che le nazioni non democratiche si dotino di armi di sterminio”, anche al costo della violazione della loro sovranità. Inoltre, ha scritto, il dovere di prevenzione comincia dalla consapevolezza che “le attuali regole Onu sull’uso della forza sono inadeguate”.
Christian Rocca
4 Dicembre 2007