Camillo di Christian Rocca"That's it"

New York. “Cafe La Fortuna”, il preferito da John Lennon e Yoko Ono, sulla settantunesima strada, all’angolo con Columbus Avenue. Appuntamento con il più simpatico intellettuale italiano e americano di cui non avete mai sentito parlare, se non in qualche obliqua segnalazione sul Foglio, magari di fianco a una citazione dello sceriffo Bell. No, non è il prof. Hamburger dell’Università del Wisconsin, tanto caro a Giulio Meotti. E’ Franco Zerlenga, 65 anni, di Torre del Greco, cittadino italiano e americano, prossimo elettore di Barack Obama.

New York. “Cafe La Fortuna”, il preferito da John Lennon e Yoko Ono, sulla settantunesima strada, all’angolo con Columbus Avenue. Appuntamento con il più simpatico intellettuale italiano e americano di cui non avete mai sentito parlare, se non in qualche obliqua segnalazione sul Foglio, magari di fianco a una citazione dello sceriffo Bell. No, non è il prof. Hamburger dell’Università del Wisconsin, tanto caro a Giulio Meotti.
E’ Franco Zerlenga, 65 anni, di Torre del Greco, cittadino italiano e americano, prossimo elettore di Barack Obama. Liberal convinto, registrato al Partito democratico, già professore di Storia dell’islam alla NYU, Zerlenga ora è impegnato a raccogliere 500 mila dollari per lanciare il Sun Institute, un centro studi che ha l’obiettivo di convincere l’occidente a riconoscere l’esistenza del nemico: “Il problema non è l’islam, è l’occidente che per la prima volta nella storia dell’umanità non tenta di levare le risorse al suo nemico, ma gliele aumenta sempre di più riempendolo di dollari in modo che poi ci possa ammazzare”. “Quelli” non sono gli islamici, ma “i salafiti, i wahabiti, gli sciiti khomeinisti, that’s it, solo loro”.
Zerlenga arriva in anticipo, legge il Post, ordina un’americana Pumpkin pie e un cappuccino italiano, racconta col suo confuso eppure chiarissimo italiano misto ad americano delle sue recenti lezioni di cinese (“è una lingua facilissima, monosillabica”), progetta di andare da Barnes & Noble a comprare un libro sul cristianesimo da regalare a un’amica che ha avuto la ventura di porgli una domanda sul tema e spiega che di tanto in tanto gli capita di andare a Gramercy Park ai meeting dei quaccheri. A far che? “Alla ricerca del mio pacifismo e di Thomas Payne”. Dice Zerlenga: “C’è sempre da imparare, sennò si finisce come Eugenio Scalfari che l’altra sera in televisione da Giuliano ha detto che siamo come le mosche, fatti mandare la cassetta”.
Proviamo a restare su Barack Obama, il candidato nero alla presidenza degli Stati Uniti, ma Zerlenga ama fare incursioni su quasi tutto lo scibile umano, un problema legale irrisolto in Italia da sette anni, l’energia solare prodotta dai privati in Arizona che poi vendono l’elettricità al comune e il comune paga le bollette al cittadino, un incontro nei prossimi giorni al Pentagono, le telefonate intercettate a Berlusconi (“che c’è di male nel proporre a un senatore di passare con lui? Il presidente americano telefona sempre ai senatori di parte opposta per chiedergli il voto e quelli gli rispondono sempre: ok, ma si ricordi di quel progetto di autostrada nel mio stato”), un’introvabile edizione di Cervantes scovata in uno scantinato di Roma, il Concordato tra stato e chiesa (“l’ho letto l’altro giorno, è interessantissimo, ma non c’è scritto come dice Scalfari che i senatori non possono parlare con i vescovi, Paola Binetti può parlare con chi vuole, pure co’ Maometto”), il problema della Corte suprema e anche Furio Colombo e il suo libro sulla fine certa di Israele, secondo l’autore, se a Gerusalemme dovesse vincere la destra (“semmai se vince la sinistra…”).
Obama, però. Il senatore è di padre africano e di madre del midwest, ma Zerlenga chiude la discussione se sia un nero vero o soltanto un nero che piace ai bianchi spiegando che, al contrario, “Obama è il classico ‘white liberal guy’ che si interessa dei problemi e dei bisogni dei negri”. La sua straordinaria forza, dice Zerlenga, consiste proprio in questo curriculum tipico del bianco di sinistra: alla ricerca della sua identità, Obama è andato a Chicago a fare il lavoro dentro la comunità afroamericana e poi l’avvocato dei diritti civili, “militanze che tradizionalmente hanno sempre fatto i bianchi di sinistra, molto spesso ebrei”.
Zerlenga dice che Obama è l’unico politico nero a presentarsi prima come americano e poi come nero e, inoltre, il primo che non invoca aiuto per i neri in quanto neri, ma per i poveri, bianchi o neri che siano. “Obama è l’opposto dei relitti storici come Jesse Jackson e Al Sharpton che si sono inventati questa etichetta di afro-americani, prima africani e poi americani”. Infine il botto. Secondo Zerlenga, il fenomeno Obama c’è grazie a George Bush, “e lo dico io che sono democratico”. Bush, ricorda, “a noi democratici ci ha schiaffato in faccia due segretari di stato negri, uno Colin Powell e l’altro non solo negro, ma anche donna, Condoleezza Rice. Neanche Billy Clinton ha avuto lo stesso coraggio”. E’ stato Bush ad abbattere l’ultimo residuo di razzismo istituzionale. Se non si capisce questo, e non si comprende quanto sia mutato il contesto storico e sociale americano, dice Zerlenga, non si spiega perché “la mia amica 72enne repubblicana del New Jersey voterà Obama”. (chr.ro)

Le newsletter de Linkiesta

X

Un altro formidabile modo di approfondire l’attualità politica, economica, culturale italiana e internazionale.

Iscriviti alle newsletter