Ora tutti scoprono che George W. Bush non è un liberista duro e puro e per commentare il piano di salvataggio pubblico di Wall Street si avventurano in analisi strampalate sul tradimento improvviso della dottrina di mercato e sull’improbabile avvento del socialismo in America. Esattamente tre anni fa, il 27 settembre 2005, un piccolo quotidiano d’opinione ha pubblicato un non isolato articolo dal titolo “Il socialista Bush” che spiegava come, al contrario di quanto si diceva in giro, Bush non fosse per niente il presidente di destra più di destra del reame né il paladino dello stato minimo, ma al contrario il presidente degli Stati Uniti che negli ultimi quarant’anni ha ampliato più di ogni altro l’intervento statale nell’economia.
Bush non è mai stato un liberista selvaggio come da caricatura giornalistica europea e, per questo, in patria è da anni criticato con libri, articoli, convegni dei seguaci, ortodossi e no, del pensiero liberista e conservatore. L’unica concessione di Bush, molto rilevante, ai caposaldi della dottrina economica conservatrice è stata il taglio delle tasse, peraltro solo temporaneo e in scadenza nel 2011. Per il resto è stato molto più liberista di lui il democratico Bill Clinton con il suo slogan, concretizzato in provvedimenti della sua Amministrazione, sulla “fine dell’era del big government” e con l’allentamento delle regole di controllo sulla concessione dei mutui che, nel 1999, ha avviato l’arricchimento e la bolla speculativa sulle abitazioni.
Bush, al contrario, è stato criticato dai suoi compagni conservatori per aver creato un nuovo Leviatano di destra, per aver ampliato a dismisura il programma federale Medicare (500 miliardi di dollari per le medicine gratuite agli anziani), per aver istituito un nuovo ministero, quello della Sicurezza del territorio nazionale, che era una vecchia idea della sinistra liberal. E per aver moltiplicato il peso di quello dell’Istruzione, che i conservatori avrebbero voluto cancellare. Bush, invece, s’è battuto assieme a Ted Kennedy per il “No child left behind Act”, il gigantesco programma di recupero scolastico finanziato da Washington. Di fronte alle critiche degli esponenti repubblicani sul piano di salvataggio di Wall Street, sostenute da un appello di 192 professori di economia, Bush non s’è posto il problema di tradire un principio liberista e, secondo la Abc, al suo staff avrebbe detto: “Non mi interessa che cosa dicono nei campus universitari, mi fido di uno con l’esperienza di Hank Paulson”.
Bush non è il tipico repubblicano nemmeno sulle questioni di politica estera, dove più che altro è un seguace delle dottrine pro democracy, interventiste e idealiste, tradizionalmente care al Partito democratico dai tempi di Woodrow Wilson fino a John Kennedy. Ma restando all’intervento pubblico nell’economia, Bush è il presidente che ha governato con il deficit, detassando e spendendo, spendendo, spendendo.
Escluse le ingenti spese militari, Bush ha aumentato il bilancio interno del 35 per cento e in 5 anni ha creato un debito pubblico di mille miliardi di dollari. Bush ha mantenuto i finanziamenti all’agricoltura e ha posto tariffe sull’acciaio, ha preparato un mega piano di ricostruzione di New Orleans da 200 miliardi, ha raddoppiato gli aiuti umanitari ai paesi in via di sviluppo e nessuno quanto lui ha investito soldi pubblici per provare a debellare la malaria e l’Aids in Africa.
Il New York Sun, quotidiano conservatore contrarissimo al piano di salvataggio di Wall Street, in questi anni ha titolato “John Fitzgerald Bush”, “Lyndon Baines Bush” e “Franklin Delano Bush”, ogni volta che le politiche sociali e di spesa della Casa Bianca hanno ricordato da vicino la Nuova Frontiera di Kennedy, il New Deal di Roosevelt e la Great Society di Johnson. La dottrina di Bush è il “conservatorismo compassionevole”, cioè solidale, una filosofia di governo ispirata – come ha scritto Jacob Heilbrunn sul New York Times – alle riflessioni del padre fondatore del neoconservatorismo Irving Kristol, autore tra le altre cose di un libro dal titolo “Due hurrà per il capitalismo”.
Due hurrà, invece dei tradizionali tre. I neoconservatori sono ex democratici cresciuti ammirando il New Deal di Roosevelt. Negli anni Settanta hanno spiegato ai conservatori che avrebbero fatto bene ad abbandonare l’ortodossia antistatalista di Barry Goldwater, perché gli americani si sono abituati a certi servizi forniti dallo stato. Bush ha seguito lo schema, ovvero guidare la spesa pubblica, invece che eliminarla, limitandosi – grazie ai tagli fiscali – a trasferire alcuni servizi a privati e associazioni religiose caritatevoli.
Christian Rocca
30 Settembre 2008