New York. Otto anni fa, sconosciuto e privo di un accredito ufficiale, gli inflessibili volontari del Partito democratico non lo fecero entrare alla convention di Los Angeles che avrebbe nominato il vicepresidente Al Gore per la sfida all’ultimo voto con George W. Bush. Barack Obama fu costretto a tornare in albergo per guardarsi l’evento in televisione e poi a rientrare precipitosamente a Chicago, dove lo aspettava la moglie Michelle.
Quattro anni dopo, nel 2004, Obama era ancora un politico locale dell’Illinois ignoto ai più, ma già capace di farsi notare da John Kerry al punto che l’allora candidato alla presidenza lo scelse per perpetuare sul palco della sua convention di Boston l’immarcescibile mito kennediano, nel tentativo di trarne beneficio contro Bush. Kerry non se n’è giovato, ma nel momento esatto in cui questo giovane politico nero con lo strano nome-e-cognome un po’ africano e un po’ musulmano è salito sul palco di Boston e ha pronunciato le prime parole di uno dei discorsi più belli della storia politica americana si è capito che era scattato qualcosa. La luce s’è accesa. La sala era ai suoi piedi. La tribuna stampa s’è ammutolita. C’erano cronisti che scuotevano la testa per la commozione mista alla paura che “questo prima o poi lo ammazzano”. Altri si sono avventurati in previsioni alquanto acrobatiche, ma più rassicuranti, “no, questo lo fanno presidente”.
L’ascesa irresistibile di Obama è cominciata quel giorno, su quel palco, con quelle parole di speranza e cambiamento, di unità e riconciliazione nazionale, che nella bocca di un giovane dalla pelle nera, mai visto e mai sentito prima di allora, hanno naturalmente moltiplicato la loro geometrica potenza. Sceso dal palco, Obama è tornato a Chicago dove – con quel misto di idealismo e pragmatismo, di abili mosse strategiche e colpi sotto la cintola che è diventato il marchio di fabbrica del suo modo di fare politica – è stato eletto senatore, il terzo afroamericano della storia del Senato degli Stati Uniti.
Chicago è la sua città d’elezione, dove s’è trasferito dopo i brillanti anni universitari a Harvard e quelli incomprensibilmente oscuri di New York per dare un senso alla mancanza di radici, all’assenza del padre e al desiderio di realizzare qualcosa. A Chicago ha trovato Michelle, ha costruito una famiglia e s’è convertito al cristianesimo. Ha fatto il community organizer, l’operatore sociale, l’avvocato in difesa dei diritti civili dei neri. A Chicago ha frequentato la chiesa radicale di Jeremiah Wright, i circoli universitari liberal di Hyde Park (e non soltanto, nel caso del terrorista non pentito Bill Ayers) e anche un costruttore dal curriculum non proprio specchiato. Obama se n’è servito per costruire il suo sogno, per accreditarsi con la comunità afroamericana che lo considerava troppo bianco, con quella liberal che lo giudicava troppo moderato, con quella imprenditoriale perché i soldi non sono lo sterco del diavolo, ma il lubrificante di grandi progetti ideali. Obama è arrivato nel 2005 a Washington con l’aura del predestinato, con il clamore di una rock star e con la chiara intenzione di restarci, ma da numero uno. Appena eletto al Senato, è stato invitato a pranzo da Bush. “Mi sono molto divertito”, ha detto Obama a un incredulo David Letterman. Ogni sua mossa, col senno di poi, è stata studiata alla perfezione per arrivare prima o poi alla giornata di ieri. Il neosenatore si è mosso nei circoli politici della capitale con la necessaria cautela di una matricola, ma anche con l’audacia di un veterano, senza mai fare passi più lunghi della sua ancora inesperta gamba, senza mai cadere nella trappola dell’antagonismo di sinistra, sempre facendo intendere di non avere alcuna intenzione di candidarsi alla presidenza nel 2008. Troppo presto, dicevano tutti. Deve farsi le ossa. E’ troppo bianco per piacere ai neri. Un nero non ce la farà mai. E poi questo è il turno di Hillary, aggiungevano.
I primi mesi di Obama a Washington, con Bush appena rieletto e ancora alto nei sondaggi, sono stati quelli in cui il giovane senatore nero – contrario dall’inizio alla “stupida” guerra in Iraq, anche se facilitato dal fatto di non essere ancora al Senato al momento del voto – sosteneva che le sue posizioni sui temi della sicurezza nazionale fossero le stesse di quelle bushiane, ma si è capito che la sua attenzione era rivolta più alla macchina politica di Karl Rove che alle ricette di Bush. “La sua è una delle migliori squadre politiche mai viste in America”, ha detto Obama dopo la rielezione di Bush.
Con questa osservazione, mentre il suo partito provava ancora a giustificare la sconfitta elettorale del 2004 con gli sporchi trucchi dei repubblicani, Obama ha costruito il primo pilastro portante della sua formidabile avventura. Obama s’è fidato del genio strategico di David Axelrod, l’ebreo newyorchese diventato giornalista e poi consulente politico a Chicago, noto per essere l’uomo capace di far votare i bianchi per più d’un candidato nero. Axelrod ha chiamato con sé il socio David Plouffe, poi nominato manager della campagna elettorale, il generale che ha sconfitto la macchina da guerra clintoniana con la più straordinaria organizzazione politica a memoria d’uomo, dichiaratamente ispirata alle grandi operazioni di Rove, migliorata grazie all’uso innovativo di Internet. A completare la squadra un paio di giovani liberal di Chicago, un ventiseienne di Boston, Jon Favreau, per scrivere i discorsi, l’amica personale Valerie Jarrett e naturalmente Michelle. Un team unito, coeso e riservato, capace di elaborare una strategia perfetta, di puntare sul messaggio profetico quando c’era da stupire, sul messianesimo quando c’era da costruire un movimento, sul pragmatismo tranquillo quando c’è stato bisogno di fare sul serio.
Gli obamiani non hanno vacillato alle prime difficoltà, hanno mantenuto sempre la linea con fermezza e disciplina, anche durante i pochi errori (supponenza nei confronti di Hillary, una battuta sugli americani medi che si aggrappano alla religione e alle armi, un’altra sul diffondere in giro la ricchezza). Sono stati lo specchio del loro candidato, “no-drama”, niente drammi, nessuna isteria, soltanto sicurezza, fiducia e serenità. (segue nell’Inserto I)
Passione più visione più tecnica politica, sono una miscela difficile da battere, anche se l’interprete è un nero, giovane, inesperto, senza curriculum, che di secondo nome fa Hussein e che, come ha detto lo stesso Obama, non è il tipico americano che si vede ritratto sulle banconote. L’abilità è stata quella di far diventare la questione razziale un vantaggio, non un problema. Obama ha cominciato questo percorso post razziale con la biografia, “Dreams of my father”, scritta quando era ancora un ragazzo, poi è stato attento a non presentarsi come l’uomo della rivincita nera, piuttosto come il guaritore della ferita segregazionista. Obama non è un leader multiculturale, come sostengono Rudy Giuliani e la sinistra europea. Non ha fatto della sua razza un’identità politica, vuole chiudere l’epoca delle identità personali declinate in politica. La sua è l’identità americana. Non c’è un’America bianca o nera o latina o asiatica, aveva detto a Boston, non c’è un’America conservatrice e una liberal, non c’è un’America patriottica e una no, “ci sono soltanto gli Stati Uniti d’America”. Obama ha cominciato a fare sul serio con i discorsi sulla religione del 2005, per mostrare al paese che esistono anche liberal che credono in Dio e non disprezzano i fedeli. Il futuro dirà se è stata solo una mossa politica o se Obama è un nuovo tipo di leader democratico, lontano dal laicismo cieco e militante, capace anche di gran discorsi sulla famiglia e la responsabilità dei genitori, e di promettere una maggiore copertura sanitaria, ma anche tagli delle tasse per il 95 per cento degli americani, il pareggio di bilancio.
La potenza della campagna visionaria di Obama è diventata evidente alla fine del 2007, al Jefferson-Jackson dinner in Iowa, quando il candidato ha tenuto un discorso formidabile, così appassionato da essere diventato uno spot irresistibile. Lì s’è capito che Obama non era in corsa per partecipare o per fare da sparring partner a Hillary. Un mese dopo, nella notte della vittoria in Iowa, si è avuta la percezione chiara che l’onda sarebbe diventata inarrestabile già alle prime parole del suo discorso, quello sui “cinici che avevano previsto non saremmo mai arrivati a questo punto”. La vera campagna elettorale è stata quella delle primarie, la vera sfida è stata con Hillary, la vera battaglia tra la novità e l’esperienza è stata risolta allora. Obama è diventato presidente in quel momento, costruendo la più gigantesca macchina da soldi della storia americana, capace di raccogliere 640 milioni di dollari in pochi mesi. L’obamamania è scoppiata allora. Il valoroso John McCain ha avuto la sfortuna di confrontarsi, nel momento peggiore per un conservatore, con un fenomeno, più che con un candidato.
Christian Rocca
5 Novembre 2008