New York. Destra e sinistra, il presidente uscente George W. Bush e quello entrante Barack Obama, sono sostanzialmente d’accordo sulla necessità che lo stato federale debba intervenire con i soldi dei contribuenti per salvare i settori industriali in crisi. Washington ha già coperto di denaro banche e assicurazioni e ora tenta di prestare 14 miliardi di dollari alle tre grandi aziende automobilistiche di Detroit, altrimenti destinate a portare i libri in tribunale e dichiarare la bancarotta. La Camera ha appena approvato il finanziamento, nonostante il voto contrario di 170 deputati, ma al Senato non sarà così semplice. Al vaglio ci sono varie ipotesi di compromesso e prima o poi si troverà una soluzione, ma questa volta, anche grazie alla fine della campagna elettorale, la novità è che sembra essere ripartito il confronto e il dibattito intellettuale su come affrontare la crisi finanziaria e la recessione.
Barack Obama punta le sue carte su un ruolo decisivo dello stato, lancia piani nazionali di grandi opere e promette una maggiore protezione sanitaria (ieri ha presentato Tom Daschle, l’uomo della riforma sanitaria). Ma il presidente eletto sembra anche aver avviato una riconsiderazione del suo piano fiscale che prevede tagli fiscali per il 95 per cento degli americani, lasciando intendere che da presidente potrebbe non cancellare la riduzione delle tasse voluta da Bush per chi guadagna più di duecentomila dollari l’anno.
I conservatori hanno cominciato un loro serrato dibattito intellettuale, tra l’ala libertaria e liberista del movimento, alleata con quella populista e antistatalista, e quella composta da una nuova generazione di analisti e politici, alleata ai vecchi neoconservatori, che sembra più disponibile ad accettare un ruolo dello stato nell’economia, pur mantenendo una giusta attenzione ideale per evitarne gli eccessi.
Negli ultimi mesi sono usciti alcuni libri, da “Comeback” di David Frum a “The Grand New Party” di Ross Douthat e Reihan Salam, che hanno elaborato proprio questo principio, in contrapposizione all’ortodossia dello stato minimo, invitando i repubblicani a una flessibilità più adatta ai tempi e alla società reale.
Con il “conservatorismo compassionevole”, già Bush aveva provato a lanciare una nuova filosofia di governo. L’ala liberista e populista della Right Nation sostiene che la sconfitta alle elezioni del 2006 e del 2008 sia dovuta esattamente a questo tradimento dei principi conservatori attuato da Bush ben prima dell’emergenza di questi mesi. Negli otto anni di presidenza, il presidente repubblicano è stato l’autore del più grande ampliamento del ruolo dello stato dai tempi di Lyndon Johnson (anni Sessanta). Bush ha aumentato la spesa scolastica con il No child left behind act, presentato con Ted Kennedy, e quella sanitaria con le medicine gratuite per gli anziani e l’ampliamento del Medicare. In realtà, con l’eccezione di Ronald Reagan, nessun presidente repubblicano del dopoguerra – da Dwight Eisenhower a Richard Nixon, fino ai due Bush – è stato un sostenitore incallito dello stato minimo, come da ideologia iper liberista. E anche Reagan, tra l’altro eletto grazie a una piattaforma centrata su taglio delle tasse e politica estera, una volta alla Casa Bianca non ha governato da ideologo della riduzione del ruolo dello stato.
I conservatori contrari all’intervento pubblico, ha scritto Bill Kristol sul New York Times, devono ricordarsi che il campione dello stato minimo, Barry Goldwater, nel 1964 è stato protagonista della più rovinosa sconfitta repubblicana del dopoguerra. E la stessa “rivoluzione conservatrice” del 1994 di Newt Gingrich è partita su tasse, crimine e riforma dello stato ed è fallita perché alla Camera i repubblicani si sono impuntati su iniziative antistataliste. “Parlare di stato minimo – ha scritto Kristol avviando il dibattito – è musica per le orecchie dei conservatori, ma non per il pubblico in generale”. (chr.ro)
12 Dicembre 2008