La sera del 4 novembre, a Chicago, Barack Obama ha ringraziato i suoi elettori con uno dei suoi consueti e formidabili discorsi, pronunciati con la cadenza, il ritmo e la circolarità tipica di un sermone domenicale, come nella migliore tradizione oratoria del reverendo Martin Luther King, come in una canzone di James Brown. Una frase di quel discorso, in particolare, l’indomani è stata ripresa da tutti i giornali ed è comparsa sulle copertine dei settimanali: “It’s been a long time coming, but tonight, change has come to America”, c’è voluto molto tempo, ma stasera, in America è arrivato il cambiamento.
Un passo indietro. La straordinaria avventura di Obama è cominciata undici mesi prima, la notte del caucus dell’Iowa, con una vittoria clamorosa su Hillary Clinton e John Edwards al primo appuntamento della lunga corsa alla nomination presidenziale del Partito democratico. In quell’occasione, a Des Moines, Obama ha centrato il discorso della vittoria su un punto: “Our time for change has come”, è arrivato il nostro momento per il cambiamento. Ancora una volta lo stesso stile gospel, con l’interazione tra il predicatore e i suoi fedeli, con Obama in piedi su un palco-pulpito, circondato da ragazzi che sottolineavano con “yeah” di commozione le frasi più ispirate del discorso. Di nuovo la stessa frase sul “change” che sarebbe arrivato dopo un lungo e faticoso cammino. Il 20 gennaio è il giorno in cui Obama diventerà il quarantaquattresimo presidente degli Stati Uniti e, sul palco della cerimonia, a festeggiarlo ci sarà la cantante soul Aretha Franklin. Nel suo secondo disco, “I never loved a man the way I love you”, anno 1967, Aretha canta una canzone che si intitola “A change is gonna come”.
C’è qualcosa che unisce – da quella prima sera a Des Moines, fino al trionfo di Chicago del 4 novembre e al nuovo inizio del 20 gennaio – il primo presidente afroamericano al verso di una canzone di quarantaquattro anni fa che si intitola, appunto, “A change is gonna come”. Non è soltanto una canzonetta, Obama e il suo speechwriter Jon Favreau non hanno citato a caso quel verso e quella storia. L’autore della canzone è Sam Cooke, il gigante della musica soul e uno dei principali interpreti, con la sua canzone, della lotta per la desegregazione razzista degli anni Sessanta.
Scritta in risposta al quesito di Bob Dylan in “Blowin’ in the wind” – quanti anni devono trascorrere perché a un popolo sia concesso di essere libero? – e perché voleva scendere in un albergo della Louisiana riservato ai bianchi, “A change is gonna come” è diventata l’inno del movimento dei diritti civili e il manifesto poetico dell’inevitabilità del cambiamento. Il verso citato da Obama dice: “I was born by the river in a little tent, oh and just like a river I’ve been running ever since, it’s been a long time comin’, but I know a change gonna come, o yes it will” (sono nato in una piccola capanna sulla riva del fiume, oh e proprio come un fiume da allora non ho fatto altro che correre, ma ci vuole molto tempo per arrivare, ma so che il cambiamento arriverà, oh, sì che arriverà”).
La canzone di Sam Cooke è del 1963, pubblicata l’anno successivo, quando Obama aveva tre anni e sua madre (bianca) aveva appena sfidato le convenzioni dell’epoca, sposandosi e facendo un figlio con un studento nero e africano. “A change is gonna come” è una delle testimonianze più importanti di un’era e di un genere musicale strettamente legati alle lotte per i diritti civili della popolazione nera. Ci sono poche cose più americane del soul, grazie al suo impasto di sogni, politica, religione e dollari. Allo stesso modo ci sono poche cose più tipicamente made in Usa della storia di Obama.
La soul music è una particolare espressione della musica nera, un derivato del rhythm ‘n blues nato a Memphis, in Tennessee, e nel delta del Mississippi, un fenomeno musicale caratterizzato da un forte legame con la fede e la musica religiosa gospel, e arricchito dall’incontro con la tradizione rurale bianca, come l’hillbilly e il country, prodotti dell’altra grande città musicale del Tennessee, Nashville.
Quasi tutte le più grandi personalità del soul sono stati leader religiosi, in alcuni casi veri predicatori come Salomon Burke e Al Green. Uno come James Brown, invece, è stato una figura a metà tra il capo religioso e il leader politico. I primi esempi di soul risalgono agli anni Cinquanta, con le incisioni di Ray Charles per l’Atlantic di New York, ma il periodo più influente è quello che va dal 1959 al 1968 e che comincia con l’incisione di “What’d I say” di Ray Charles con cui vengono fissati i canoni della black music moderna. L’era del soul finisce politicamente con l’uccisione del reverendo Martin Luther King, il 4 aprile del 1968, a Memphis, otto mesi dopo la scomparsa di Otis Redding, uno degli interpreti più carismatici del genere.
Eppure, oggi, in questi anni di era pre-Obama si sta assistendo a una rinascita del soul, non solo con i fenomeni pop alla Amy Winehouse, Duffy, Adele e perfino con l’italiana Giusi Ferreri, ma anche con un vero e proprio revival soul di etichette e band e artisti capaci di ricreare quelle atmosfere musicali e di vita degli anni sessanta. Due anni fa il film “Dreamgirls”, ispirato alla storia di Diana Ross e delle Supremes, ha vinto due Oscar. Nel 2004 anche “Ray”, dedicato a Ray Charles, aveva vinto due statuette. Oggi nei cinema americani c’è “Cadillac records”, la storia di Etta James, Muddy Waters e dell’etichetta di Chicago Chess. Spike Lee sta preparando la grande biografia di James Brown.
Il soul non è stato soltanto la colonna sonora della stagione dei diritti civili, ma esso stesso uno strumento di integrazione sociale culturale del profondo sud. Nelle sale di incisione della Stax, King, Hi, Soulwax e negli studi di Muscle Shoals e Fame, lavoravano fianco a fianco artisti e produttori bianchi e neri (Isaac Hayes, David Porter, Chips Moman, Booker T. Jones, i Mar-Keys) per un pubblico multirazziale che comprava i loro dischi quando ancora in diversi stati ai neri non era consentito di entrare negli stessi luoghi aperti ai bianchi. Non solo, per la prima volta, grazie al successo commerciale del soul, si sono cominciati a vedere i primi esempi di integrazione economica afroamericana. Sono stati i soulman i primi neri in grado di creare onestamente ricchezza nello show business. James Brown ha definito il fenomeno come il primo esempio di “black capitalism”. Grazie al soul, per la prima volta, grandi artisti neri come Sam Cooke, Ray Charles e James Brown hanno potuto chiedere il pieno controllo sulla produzione e e non hanno più avuto bisogno di tutori.
L’integrazione tra bianchi e neri è alla base della musica moderna, a partire dalla nascita del jazz, all’inizio del secolo scorso. Il soul deve la sua nascita al Rythmn ‘n blues e a un gruppo di intraprendenti impresari bianchi, spesso ebrei come il Leonard Chess interpretato da Adrien Brody in “Cadillac records”. Chess e Jerry Wexler dell’Atlantic di New York hanno cominciato a diffondere la “race music” e a spianare la strada alle successive espressioni autoctone della cultura nera. Il R&B nasce con l’emigrazione degli anni Venti dei neri dal sud verso le città del nord, in coincidenza con il richiamo dei grandi conglomerati industriali come Chicago, Detroit, Kansas City, St Louis.
Il blues ritmico era la fusione tra il lamento malinconico delle campagne del sud e il ritmo cosmopolita delle orchestre da ballo delle città. Nel Dopoguerra, a Chicago, è diventato elettrico. Si sono formati i primi piccoli gruppi con il cantante che suonava la chitarra elettrica, accompagnato da piano, basso e batteria. B.B. King, Muddy Waters, Howlin Wolf, Willie Dixon, Buddy Guy, John Lee Hooker, Sonny Boy Wiliamson, Memphis Slim, Bo Diddley, senza saperlo, hanno inventato il rock, la sua base musicale, quella che avrebbe conquistato intere generazioni, riempito stadi e costruito icone moderne.
A Chicago l’etichetta principe è, appunto, la Chess degli omonimi fratelli Leonard e Phil, ebrei polacchi, avventurosi gestori del Macamba night club nel Southside di Chicago, lo stesso quartiere nero che è stato il punto di partenza della carriera politica di Barack Obama. I Chess hanno scoperto e lanciato Chuck Berry, il primo musicista capace di dare al rock un’estetica (la “duck walk”) e una poetica successivamente omaggiata da tutti, dai Beatles, agli U2, a Bruce Springsteen.
Ai tempi, però, quella era ancora “race music”, musica fatta dai neri per i neri, confinata in un circuito segregato di locali, negozi e radio. E loro, gli artisti del blues elettrico, erano l’immagine vivente del pregiudizio razziale dei bianchi, erano quasi tutti black man un po’ cialtroni e vagabondi, spesso ubriachi e pieni di donne. I produttori bianchi trovarono un modo per fare soldi da quella musica, ripulendola dalla sua negritudine, aggiungendo arrangiamenti meno ruvidi e naturalmente facendola interpretare a un cantante bianco.
Lo sdoganatore della musica nera è stato un giovane camionista di Tupelo che si chiamava Elvis Presley, un bianco, bello e biondo che cantava e si dimenava come un nero. Presley ha reso presentabile una musica che apparentemente non lo era. Ma un aiuto decisivo è arrivato dall’Europa, con una delle poche, involontarie e più colossali operazioni di risarcimento culturale dopo la liberazione dal nazifascismo. Nella seconda metà degli anni Sessanta, infatti, l’America ha assistito alla “British invasion”, una specie di D-day al contrario, con i musicisti inglesi guidati dai Beatles e dai Rolling Stones che hanno riportato negli Stati Uniti la musica nera del profondo sud, in America ignorata, mal giudicata o candeggiata con risciacqui pop e bianchi.
I Beatles sono arrivati in America nel 1964 e nel reportorio avevano brani Motown, di Chuck Berry, di Little Richard. Il contributo più grande è stato dei Rolling Stones, grazie a loro il blues e tutto il resto sono stati definitivamente accettati nel paese che li ha creati. Mick Jagger e Keith Richards sono diventati amici scambiandosi i dischi di Muddy Waters e hanno chiamato il loro gruppo Rolling Stones, ispirandosi al titolo di una sua canzone. Nel 1965, sono andati a Chicago negli studi Chess e hanno registrato canzoni di Sam Cooke, Otis Redding, Marvin Gaye e Solomon Burke, poi usciti nella versione americana del loro terzo disco, “Out of our heads”.
Dodici anni prima, nel 1953, la storia della black music e della cultura americana ha conosciuto il punto di svolta musicale: l’Atlantic Records di New York ha messo sotto contratto un cantante pianista nero, cieco per una grave forma di infezione agli occhi non curata. Ray Charles era l’emblema della condizione di vita dei black nel sud degli Stati Uniti negli anni Cinquanta. A sette anni ha perso la vista, perché la sua famiglia non aveva i mezzi per aiutarlo. Un decennio prima, la regina del blues Bessie Smith era morta dissanguata perché nessun ospedale aveva accettato di ricoverarla. Ray Charles, detto The Genius, ha riarrangiato la musica che cantava da bambino nella sua chiesa in Georgia, cambiando le parole, esasperando ritmo e sensualità.
Le versioni edulcorate bianche non potevano reggere il confronto e Ray Charles ha cominciato a scalare le classifiche pop, fino a vendere un milione di copie. Ma se Ray Charles ha aperto la strada dell’integrazione razziale, è stato il Sam Cooke di “A change is gonna come” a indicare la via d’uscita. Nato povero nel Mississippi, bello e naturalmente elegante, Cooke era un cantante raffinato che si rivolgeva con la stessa intensità al pubblico bianco e nero. Amava la bella vita, le macchine sportive, le donne. Era considerato un nero a metà, un nero fino a un certo punto, un venduto. Cooke era il nero che piaceva ai bianchi, dava ai bianchi un’immagine accettabile e meno aggressiva di quella di Ray Charles. Era ambiguo, Cooke. Alternava pezzi da crooner (“For sentimental reasons”, “Cupid”) a canzonette ottimistiche (“Wonderful Word”) e, soltanto di rado, a richiami alla condizione della sua gente (“Chain Gang”). Cooke si esibiva in modo levigato e accattivante al Copa, locale di lusso con un pubblico bianco a cui offriva gli standard della musica di successo del tempo. Solo saltuariamente si inoltrava fino alla 129esima strada di Manhattan per cantare nei piccoli club neri di Harlem.
Sam Cooke è stato anche un abile businessman, ha creato un’etichetta discografica, la Sar, ha lanciato artisti come Johnnie Taylor e Bobby Womack e ha stipulato con la Rca un contratto milionario, uno dei primi esempi di successo interrazziale negli anni in cui, in Alabama, a Rosa Parks non era consentito sedersi nei posti del bus riservati ai bianchi. Fu ucciso a trentatré anni in circostanze mai ben chiarite, l’11 dicembre 1964, dalla custode del motel di Los Angeles dove era andato con una ragazza. “A change is gonna come” è uscita dopo la sua morte.
L’editore Adam Bellow, figlio di Saul Bellow, in un’intervista al Foglio ha detto che i neri come Obama e sua moglie – gente di successo che ha frequentato le migliori scuole del paese – sono come quegli ebrei degli anni Sessanta che ce l’avevano fatta e che si sentivano in colpa per il loro successo. Nel caso degli Obama, questo può essere il motivo per cui hanno scelto di frequentare la chiesa nera e radicale di Jeremiah Wright: una forma di rispetto nei confronti dei genitori, un modo di assaporare una parte di quel mondo antico, familiare, eppure lontano. Se è così, lo strumento con cui Sam Cooke ha saldato il conto con il suo successo tra i bianchi è stata proprio “A change is gonna come”, la canzone-manifesto diventata la colonna sonora delle marce per diritti civili e, quarant’anni dopo, del trionfo di Obama.
Oltre a Ray Charles e Sam Cooke, il terzo elemento della trinità soul è stato James Brown. Nato in South Carolina, Brown ha avuto un’infanzia miserabile che si è trasformata in maniacale disciplina e totale dedizione al lavoro, quasi a voler esorcizzare la paura della fame e della povertà estrema. James Brown era “the hardest working man in the show business”, il cantante dallo stile messianico che aveva un rapporto speciale con il pubblico e riusciva a trasformare gli show in cerimonia politica, ascetica e religiosa, come ha sottolineato ironicamente la sua partecipazione al film “The Blues Brothers”.
Il 5 aprile del 1968, ventiquattr’ore dopo l’assassinio di Martin Luther King, è passato alla storia come il giorno in cui James Brown ha salvato Boston. Era previsto un suo concerto al Garden e c’era il rischio di una rivolta nera. La polizia era in allerta, Brown e il sindaco hanno deciso di trasmettere il concerto in diretta tv, per evitare l’afflusso di masse nere in centro. Il piano ha funzionato. E quando la folla è salita sul palco, James Brown ha detto: “Siamo neri, siamo neri, siamo tutti neri, credo di meritare un po’ di rispetto dalla mia gente”. Sei mesi dopo ha inciso “Say it loud, I’m black and proud”.
In quei mesi, mentre montava la protesta dei ghetti, l’uomo che aveva sdoganato la musica nera, Elvis Presley, era in crisi profonda. Elvis aveva bisogno di rilanciare la sua carriera e per farlo si è affidato ai maestri del soul, incidendo “From Elvis in Memphis”, un tributo a quella musica nera di cui dieci anni prima si era appropriato senza dire grazie. Questa volta, però, Elvis ha trovato il modo di ricambiare il favore: il singolo che nel 1969 è andato al primo posto in classifica, il suo primo numero uno dopo nove anni si intitola “In the Ghetto” e racconta la disperazione della vita dei neri (“And the snow flies, in a cold morning in Chicago, a little baby is born in the ghetto… and his mama cries”).
A molti quella di Elvis era sembrata una furbata commerciale e politicamente corretta, ma qualche anno prima sarebbe stato impensabile per un bianco cantare una canzone così nera. C’era voluto molto tempo, ma finalmente il cambiamento era arrivato. La vittoria di Obama non è giunta all’improvviso, non è stato un colpo di fortuna, è un successo conquistato quarant’anni fa, arrivato nella testa di una nazione, prima ancora che nelle urne, grazie alle sue musiche, ai suoi ritmi, alla sua anima.
di Cataldo Intrieri
e Christian Rocca
24 Dicembre 2008