Camillo di Christian RoccaGuantanamera

Non ci crederete, ma una settimana dopo la decisione di Barack Obama di chiudere, entro un anno, il carcere extraterritoriale di Guantanamo c’è già chi spiega che l’idea non era poi così male e che le alternative a disposizione del nuovo presidente non è detto che siano migliori. A sostenere la tesi non sono (solo) amici di George W. Bush, politici di destra ed editorialisti conservatori, ma intellettuali, opinionisti e giornalisti di sinistra. Ha cominciato il New York Times, raccontando che il carcere americano di Bagram, in Afghanistan, su cui Obama non ha speso una parola, pone problemi decisamente maggiori rispetto a quelli di Guantanamo sia in termini di numero di detenuti (600 contro 245) sia di tecniche di interrogatorio (a Bagram è stato usato tre volte il “waterboarding”, a Guantanamo mai) sia di diritti (a Bagram non si fanno processi, a Guantanamo ci sono le corti speciali militari e i detenuti possono appellarsi ai giudici federali). Domenica scorsa è stato il turno del Washington Post con un lungo articolo di Karen J. Greenberg, direttore esecutivo del Centro sulla legge e sulla sicurezza della New York University e autrice di due libri sulle torture e su Abu Ghraib. Subito dopo, sul giornale online “Daily Beast” di Tina Brown, è intervenuto Dan Abrams, avvocato, capo degli analisti giuridici della Nbc ed ex conduttore di uno degli show televisivi più anti Bush della Msnbc. Entrambi sostengono che l’Amministrazione Bush abbia rovinato tutto, ma che l’idea del carcere militare fuori dai confini americani fosse più che buona, probabilmente la migliore.
Abrams sostiene che “una nuova struttura fuori dagli Stati Uniti deve essere presa in considerazione per ospitare e detenere alcuni sospettati di terrorismo catturati all’estero”. L’articolo della Greenberg sul Washington Post è intitolato “Quando Guantanano era (relativamente) buono”. La tesi è che nei primi cento giorni – peraltro quelli più discutibili per la mancanza di regole e per la rabbia post 11 settembre – il carcere era ben gestito, i detenuti trattati bene e le leggi rispettate. Sull’argomento, Greenberg sta per pubblicare anche un libro dal titolo “Il posto meno peggiore: i primi cento giorni di Guantanamo”. L’ex colonnello dell’esercito Gordon Cucullu, invece, ha scritto un libro per Harper Collins che si intitola “Dentro Gitmo – La vera storia dietro i miti della baia di Guantanamo”.
Il paradosso per i sostenitori della tesi secondo cui “Guantanamo è il gulag dei nostri giorni” è che la struttura costruita sulla base navale a Cuba è probabilmente la prigione d’alta sicurezza più rispettosa dei diritti umani di sempre, specie se si considera la pericolosità, l’aggressività e la precisa volontà di condurre una guerra santa di gran parte dei suoi ospiti (il libro “Dentro Gitmo” racconta nel dettaglio come a essere vessati, insultati e picchiati siano quotidianamente le guardie, i medici e le infermiere e come nei pochi casi in cui gli agenti hanno reagito alle provocazioni siano stati puniti e degradati).
Al di là della propaganda antibushiana di questi anni, secondo tutte le inchieste ufficiali, e anche a detta di alcuni ex detenuti, i prigionieri di Guantanamo sono trattati meglio rispetto agli ospiti di qualsiasi altro normale carcere americano. Guantanamo sconta la polemica politica, l’affievolimento del ricordo dell’11 settembre, la diffidenza internazionale nei confronti della Casa Bianca di Bush e soprattutto lo scandalo di Abu Ghraib, il carcere iracheno dove negli anni scorsi è stata scoperta una serie di abusi sui detenuti. Abu Ghraib con Guantanamo non c’entra nulla, ma la potenza di quelle fotografie e la disumanità del sadismo gratuito di quei soldati hanno creato un legame indissolubile tra i due carceri, malgrado le immagini di Abu Ghraib non mostrassero torture per estorcere informazioni ai prigionieri, ma mascalzonate di gente che si divertiva ad abusare dei prigionieri.
A Guantanamo la vita è diversa. Tre pasti al giorno per 4200 calorie quotidiane al costo di 34 dollari a persona per il contribuente americano, contro i 17 spesi per i militari impegnati in Iraq e Afghanistan. Menù che cambia di settimana in settimana e che rispetta le prescrizioni religiose e le richieste individuali dei detenuti. Annunci religiosi in tutte e diciassette le lingue dei prigionieri, luoghi di culto, Corano per tutti e indicazione della Mecca nelle celle e negli spazi comuni. I detenuti di Guantanamo possono contare su un’assistenza medica completa e specialistica, check up semestrali, farmaci antidepressivi (ne distribuiscono mille al giorno) e in carcere sono state curate malattie congenite, ernie, denti e in un paio di casi la struttura ospedaliera è stata pronta a impiantare bypass cardiaci (poi il detenuto s’è rifiutato e ogni volta il costo è stato di mezzo milione di dollari). I prigionieri che rispettano le regole, anche se non collaborano, hanno ampia libertà di movimento, ma l’isolamento non è mai totale nemmeno per i più aggressivi. La comunicazione con l’esterno è permessa, ai detenuti è consentito ricevere la posta e gli avvocati entrano ed escono, così come la Croce rossa internazionale che, salvo casi isolati di abusi fisici, ha lamentato soltanto l’assenza di status giuridico dei detenuti. A Guantanamo ci sono stati tre suicidi simultanei nel 2006 e centinaia sono stati i tentativi, scatenati da una precisa volontà di martirio e non dalle cattive condizioni di detenzione o dall’insopportabilità degli abusi. Centinaia di detenuti che si rifiutavano di mangiare sono stati nutriti forzosamente (e da qualcuno questa è stata considerata “tortura”).
C’è da distinguere tra le condizioni di vita nel carcere e gli interrogatori. La questione cruciale è quella delle modalità e delle tecniche di interrogatorio. E’ qui che è scattata l’accusa di aver autorizzato la tortura al fine di ottenere informazioni. Una valutazione attenta di oltre 24 mila sessioni di interrogatorio tenute a Guantanamo, contenuta in otto diversi rapporti (Taguba, Fay-Jones-Kerr, Schlesinger, Navy I.G., Army I.G., Jacoby, Ryder, Miller), ha svelato soltanto tre (3) violazioni sui detenuti, nessuna successiva al 2002. Un numero decisamente basso in generale e addirittura straordinario se si considerano il clima post 11 settembre, le pressioni politiche e l’ansia di raccogliere informazioni per smantellare cellule terroristiche pronte ad attaccare ancora l’America.
Soltanto due settimane fa, il 14 gennaio, s’è scoperto il primo e unico caso di tortura a Guantanamo (ma era già una delle tre violazioni di cui si era a conoscenza, solo che ora è stata valutata diversamente). Susan J. Crawford, nominata dall’Amministrazione Bush per presiedere le commissioni militari che hanno il compito di giudicare i detenuti, ha detto a Bob Woodward del Washington Post che il saudita Mohammed al Qahtani “è stato torturato”, perché sottoposto a una combinazione di tecniche di interrogatorio “tutte autorizzate”, ma “applicate in modo apertamente aggressivo e troppo accanito”.
Al Qahtani è stato tenuto in isolamento, sottoposto alla privazione del sonno, spogliato ed esposto in modo prolungato al freddo dell’aria condizionata. La Crawford ha specificato a Woodward che “quando si pensa alla tortura, si immaginano orrendi atti fisici su un individuo, ma in questo caso non c’è stato un atto particolare, soltanto la combinazione di cose che hanno avuto un impatto medico su di lui, che hanno fatto male alla sua salute”.
Guantanamo non è “al muntazah al-dini lilmujaheden al Muslimin”, il resort religioso per i militanti islamici, come dicono scherzando gli stessi prigionieri, ma è il carcere più lontano possibile dall’idea di un gulag. L’unico vero punto oscuro di Guantanamo, fin dal primo giorno, è stato quello denunciato anche dalla Croce rossa, quello della definizione di “nemico combattente” e dello status giuridico dei prigionieri. La Casa Bianca ha scelto questa formula perché i terroristi di al Qaida non rientrano nella previsione della Commissione di Ginevra, in quanto non appartengono a un esercito regolare e non possono essere riconsegnati al paese di provenienza. Allo stesso tempo non possono essere giudicati con le regole della procedura penale valida per i comuni cittadini americani, perché le modalità della cattura in un campo di battaglia e la necessità di ottenere informazioni non si conciliano con le garanzie processuali previste in un processo ordinario.
L’idea di trasferire in un unico carcere extraterritoriale i terroristi di al Qaeda serviva esattamente a questo: Guantanamo non è stato creato per punire o riabilitare i detenuti, ma per tenere questi guerrieri nemici lontani dai campi di battaglia.
Guantanamo, però, ha violato o perlomeno ritardato il diritto alla revisione dei casi davanti a un giudice imparziale. Col passare dei mesi, però, si è posto rimedio anche a questo, prima unilateralmente e poi su doppia indicazione della Corte Suprema di Washington. L’Amministrazione Bush ha provato ad esercitare al massimo il proprio potere esecutivo, ma quando i giudici costituzionali hanno stabilito che la Casa Bianca era andata oltre si è rivolta al Congresso che, a grande maggioranza, ha istituito le corti militari che hanno avviato i processi. Obama ha chiesto la loro sospensione per 120 giorni, ma ieri un giudice militare ha giudicato la richiesta “non convincente” e ha stabilito che il processo contro il saudita Abd al Rahim al Nashiri, accusato di aver partecipato agli attacchi del 2000 contro la nave Uss Cole (17 morti), riprenderà il 9 febbraio.
I detenuti possono anche appellarsi ai giudici federali per valutare le ragioni della loro detenzione ed è di due giorni fa la sentenza del giudice distrettuale Richard Leon nel caso “Al Bihani contro Bush”, diventato automaticamente “Al Bihani contro Obama”. Il detenuto Ghaleb Nassar Al Bihani, accusato di essere il cuoco dei talebani, secondo il giudice federale deve restare a Guantanamo.
Obama ha chiesto a una task force speciale di valutare caso per caso i dossier dei detenuti e di suggerigli entro sei mesi una soluzione che, secondo gli stessi obamiani, potrebbe essere una versione leggermente modificata delle corti speciali già esistenti. I critici del neo presidente temono invece che Obama stia cercando di far rientrare la lotta al terrorismo nel binario giuridico ordinario. In ogni caso, malgrado le critiche, non c’è mai stata una vera sospensione dell’habeas corpus. Il processo di revisione dei casi dei singoli detenuti è andato avanti e ha funzionato abbastanza bene, se si considera che circa 400 detenuti sono stati rilasciati o consegnati alla giustizia dei paesi di provenienza e in alcuni casi a paesi terzi. Altri sessanta sono pronti per il rilascio da almeno un anno, ma c’è il rischio che una volta rimpatriati vengano torturati o uccisi. Da tempo c’è in corso una serrata attività diplomatica del Dipartimento di Stato per convincere i paesi alleati a prendersi cura di questi detenuti, ma soltanto negli ultimi giorni della presidenza Bush sono cominciate ad arrivare risposte positive e ora sarà compito di Obama convincere i paesi europei.
Se Obama ci riuscirà, come è possibile, l’Amministrazione avrà fatto un passo avanti verso la chiusura di Guantanamo, ma il problema non è affatto risolto. Ci sarà comunque da trovare la soluzione per i circa 165 detenuti duri e puri, tra cui gli architetti degli attacchi dell’11 settembre, che gli Stati Uniti non hanno nessuna intenzione di rilasciare. Il Washington Post ha scritto che il team Obama ha già cominciato a rendersi conto che “la nuova revisione raggiungerà la stessa conclusione di quella precedente: la maggior parte dei detenuti non può essere rilasciata e nemmeno facilmente processata in questo paese”.
Il neo presidente Obama, inoltre, ha disposto con un altro decreto esecutivo la chiusura delle prigioni segrete della Cia, ma con un’eccezione che, di fatto, non cancella le strutture clandestine: “Il termine struttura di detenzione nel comma 4(a) di questo decreto non si riferisce alle strutture usate soltanto per detenzioni a breve termine, su base transitoria”.
di  Christian Rocca

Le newsletter de Linkiesta

X

Un altro formidabile modo di approfondire l’attualità politica, economica, culturale italiana e internazionale.

Iscriviti alle newsletter