The Wire”, la cimice, malgrado un titolo che potrebbe eccitare Marco Travaglio, è la formidabile serie televisiva americana su cui il ministro della Giustizia Angelino Alfano dovrebbe costruire un nuovo Lodo, magari da distribuire in comodi dvd ai parlamentari che in queste ore valutano il disegno di legge sulle intercettazioni telefoniche e il pacchetto sicurezza che, tra le altre cose, cerca di restituire alla polizia una maggiore autonomia investigativa. Prodotto dalla Hbo, conclusosi l’anno scorso e trasmesso in Italia (soltanto due stagioni su cinque) sui canali Fox, “The Wire” è stato descritto dai critici di quasi tutti i giornali americani come “la più bella serie televisiva mai trasmessa dalla televisione”, più dei “Soprano”, come “West Wing”. Gli ascolti non sono mai stati altissimi, ma il New York Times gli ha dedicato uno dei suoi solitamente austeri editoriali, mentre fior di intellettuali hanno scritto che è molto più di una serie televisiva, piuttosto “un grande romanzo americano”, una rappresentazione realistica dell’Inferno, una versione yankee dell’Iliade, un’opera paragonabile ai racconti di Charles Dickens e alla letteratura investigativa di Tom Wolfe.
Scritto da un ex cronista di nera del Baltimore Sun, David Simon, e da un ex poliziotto ed ex insegnante locale, Ed Burns, “The Wire” è una Gomorra monumentale, come l’avrebbe diretta Martin Scorsese, creata con la magnificenza dell’industria cinematografica americana e ambientata, invece che a Scampia, nei ghetti neri di Baltimora, in Maryland, una delle città più violente degli Stati Uniti. Le gang di adolescenti neri controllano il traffico e lo spaccio di droga e ogni incrocio di strade di West Baltimore. Uccidere senza pietà o morire senza tante storie fa parte del “game”, del gioco, cioè del business della droga.
Un’unità speciale della polizia, senza eroi e piena di mascalzoni, è sulle loro tracce, si serve di informatori, si apposta, pedina, indaga ed è costretta a confrontarsi con le piccinerie della burocrazia, con le richieste della politica, con gli intrecci malavitosi che si perdono nei palazzi del potere, con la voracità della stampa e con il tentativo disperato della scuola pubblica di salvare i più giovani tra i baby gangster.
In teoria non c’è niente di più distante tra Angelino Alfano e le storie tristi e violenti dei protagonisti dello show. Il ministro parla come un codice di procedura penale anche se ordina un panino, i protagonisti di “The Wire” non azzeccano un verbo o una concordanza nemmeno per sbaglio. Ciascun gruppo di protagonisti della serie – “la strada”, “la legge”, “il porto”, “la politica”, “la scuola”, “la stampa” – ha un codice linguistico tutto suo, uno slang urlato, osceno e spesso sgrammaticato, al punto che i critici consigliano anche agli americani di guardare le puntate con i sottotitoli.
Il titolo – “The wire”, “la cimice”– si riferisce alle intercettazioni che la polizia di Baltimora usa per mettere sotto scacco i boss. “The Wire”, dunque, è un poliziesco centrato sulle intercettazioni. Eppure la prima cimice scatta soltanto alla settima delle prime tredici puntate, dopo un gran lavoro istruttorio e investigativo dell’unità speciale di polizia. E in cinque stagioni e sessanta puntate da un’ora ciascuna, mai una telefonata, mai una trascrizione, mai una riga è finita sui giornali di “The Wire”. I politici non vengono mai intercettati, anche se a seguire i soldi si arriva più o meno sempre lì, e i magistrati eletti popolarmente stanno molto attenti a non intralciare i processi democratici con inchieste criminali che potrebbero essere interpretate come politicamente motivate. Soprattutto, come vorrebbe il pacchetto sicurezza di Alfano, sono i poliziotti a condurre le indagini, non i magistrati. Solo quando, con una montagna di documenti, prove e indizi, la polizia dimostra al procuratore che ascoltare le conversazioni sia assolutamente indispensabile si chiede al giudice, spesso restio, di autorizzare l’uso delle cimici.
Il “Lodo the W.” sarebbe un gioco da ragazzi, se solo a capo della sinistra italiana ci fosse un leader capace di apprezzare la grandezza delle serie televisive americane.
20 Febbraio 2009