E’ una specie di bollettino di guerra. Chicago Tribune, Los Angeles Times, Minneapolis Star-Tribune e Philadelphia Inquirer hanno dichiarato la bancarotta. Il New York Times, le cui azioni sono considerate “spazzatura” dalle agenzie di rating, è stato costretto a vendere il suo nuovo grattacielo di Renzo Piano. Il Rocky Mountain di Denver, il Christian Science Monitor, il Seattle Post-Intelligencer, l’Ann Arbor News e molti altri quotidiani con storia ultracentenaria hanno già chiuso o si sono trasformati in siti Internet. Il San Francisco Chronicle perde un milione di dollari a settimana e, a meno di un miracolo, ha il destino segnato, visto che non gli basta nemmeno l’accordo già siglato tra i proprietari, il gruppo Hearst, e i sindacati che prevede circa centocinquanta licenziamenti su cinquecento impiegati. Al Times di Los Angeles hanno già mandato via 300 persone, 205 al Miami Herald, 30 al Wall Street Journal di Rupert Murdoch, a centinaia in altrettanti quotidiani del paese. L’anno scorso, in totale, i licenziamenti sono stati sedicimila. Quest’anno la cifra prevista è decisamente più alta. Time ha stilato l’elenco dei prossimi dieci grandi giornali che chiuderanno e ha previsto un futuro prossimo con grandi città americane senza nemmeno un quotidiano locale.
La concorrenza di Internet è spietata, i costi sono aumentati e la crisi finanziaria ha ulteriormente prosciugato le entrate pubblicitarie. L’ultimo gadget elettronico, sempre più lodato da editorialisti e commentatori dei giornali cartacei, non ha aiutato il già esangue mercato della carta stampata: il lettore Kindle 2, lanciato da Amazon il mese scorso, consente di leggere libri, giornali e riviste scaricandoli dalla rete a buon mercato e in modo comodo e semplice.
Gli americani si chiedono che cosa fare, come salvare i propri giornali, in che modo preservare la libertà di espressione e il ruolo dei media come cane da guardia del potere. C’è chi propone soluzioni tecniche, tipo far pagare i contenuti online. Ma a mano a mano che la crisi colpisce i giornali delle singole città, tra i deputati di quelle zone comincia a circolare l’idea del “bailout”, del salvataggio pubblico da parte dello stato. Un deputato del Connecticut l’ha chiesto espressamente, con una proposta di legge. L’editore del Philadelphia Inquirer e del Daily News ha quantificato in dieci milioni di dollari la richiesta al governatore della Pennsylvania per rilevare il suo gruppo, prossimo alla bancarotta. Altri suggeriscono di seguire il modello francese del presidente Nicolas Sarkozy (seicento milioni di euro di aiuti ai giornali in crisi). “Salviamo Aig e Goldman Sachs – ha detto il deputato di Seattle Jim McDermott – ma lasciamo affondare i nostri giornali come se fossero buoni solo a incartare il pesce”. E’ scesa in campo anche Nancy Pelosi, deputato di San Francisco, dove il Chronicle è sull’orlo del fallimento. La speaker della Camera ha scritto una lettera al ministro della Giustizia, Eric Holder, proponendo di rivedere le leggi antitrust che oggi vietano ai gruppi che detengono una larga fetta del mercato editoriale di acquisire altri giornali. Holder ha risposto che è pronto a riscrivere le norme antitrust, riconoscendo che in questo modo si potrebbero salvare numerosi giornali. Una proposta concreta di salvataggio pubblico è contenuta in un lungo articolo scritto dagli studiosi John Nichols e Robert McChesney su The Nation. E’ un manifesto politico a favore di uno stimolo governativo da venti miliardi di dollari l’anno (60 in tre anni), centrato tra le altre cose sull’eliminazione delle tariffe postali a favore delle riviste con poca pubblicità e sulla deduzione fiscale fino a 200 dollari l’anno per chiunque si abboni ai giornali.
25 Marzo 2009