Camillo di Christian RoccaIl cantastorie Hersh

Il grande giornalista investigativo celebrato domani a Perugia ha costruito su uno scoop di 40 anni fa una carriera di complotti dietrologici smentiti anche dai liberal

Voi non lo sapete, ma ormai sono tre o quattro anni che l’America cattiva di George W. Bush ha segretamente cominciato a bombardare l’Iran. Se non ne avete avuto notizia, se non avete sentito nessuna protesta iraniana e se non avete visto né un morto né un edificio in macerie non vuol dire affatto che non sia successo niente, anzi è la prova della complicità e della corruzione della stampa di tutto il mondo. Ovviamente si tratta di pura dietrologia, di iperbolica teoria del complotto, di giuliettochiesismo all’ennesima potenza.
Eppure il propalatore di tali fantasie, il formidabile e stagionato cronista investigativo Seymour Hersh, in Italia è celebrato come un gigante della professione giornalistica e un modello da insegnare nelle scuole di giornalismo, malgrado in patria sia decisamente meno rispettato e credibile, visto che da quattro decenni i suoi concittadini hanno l’opportunità di leggerlo e di ascoltarlo in lingua originale.

Domani mattina, il Festival del giornalismo di Perugia onorerà la carriera di Hersh con grande dispiego di energie e una speciale attenzione della stampa. Accanto alle lodi per il suo fiuto giornalistico e per l’abilità di scatenare polemiche, è difficile che qualcuno sul palco del festival perugino ricordi uno solo dei copiosi giudizi negativi sull’opera di Hersh, non soltanto quelli di avversari di destra come Richard Perle (“Hersh è la cosa del giornalismo americano più simile a un terrorista”) o Henry Kissinger (“le accuse di Hersh sono viscide bugie”) o Max Boot sul Los Angeles Times (“Hersh è l’equivalente giornalistico di Oliver Stone, un fondamentalista di estrema sinistra che aderisce all’antico dogma antagonista secondo cui una profonda e oscura cospirazione guida il governo americano”).
Giudizi di questo tipo se ne trovano a decine, anche tra le rispettatissime icone liberal e dell’establishment intellettuale di sinistra.

Siete pronti? Eccoli. Il principale consigliere politico di John Fitzgerald Kennedy, Arthur Schlesinger, ha definito Hersh “il giornalista investigativo più credulone che abbia mai incontrato”, visto che aveva abboccato a una serie di documenti palesemente falsi contro Kennedy che gli aveva fornito un truffatore, poi condannato e finito in carcere per falso. Hersh aveva svelato, dando credito a finte lettere autografe di Kennedy, la notizia di un’offerta di denaro del presidente a Marilyn Monroe perché l’attrice tacesse sulla loro presunta relazione sessuale.
Hersh aveva giurato di aver trovato conferme indipendenti alla veridicità di quei documenti e, di suo, ha aggiunto una serie di ulteriori accuse sui rapporti tra Kennedy e il boss mafioso Sam Giancana, più altri scandali, fallimenti e abusi di potere che, secondo Hersh, “sono andati ben oltre le piccole indulgenze personali, ma che hanno minacciato la sicurezza della nazione e l’integrità della presidenza”.

Hersh sosteneva che soltanto l’aiuto del fratello Bob, nominato ministro della Giustizia, e poi la morte a Dallas, abbiano evitato a Kennedy un grande processo politico e pubblico che lo avrebbe fatto crollare. Chissà se ne riparlerà, sabato mattina a Perugia. Sulla base di quei documenti fasulli, Hersh aveva anche firmato un importante contratto con l’Abc per un documentario sconvolgente contro il presidente più amato dell’ultimo secolo, ma l’Abc ha scoperto la falsità di quei documenti e ha prontamente cancellato il contratto.
Il senatore Ted Kennedy, fratello dell’ex presidente, ha definito il libro di Hersh “scurrile”. Ted Sorensen, il leggendario speechwriter di John Kennedy e musa dei discorsi di Barack Obama, ha definito l’inchiesta giornalistica di Hersh sull’ex presidente “una patetica collezione di storie folli”, mentre l’attuale columnist super liberal del New York Times, Gail Collins, su The Nation ha scritto che l’inchiesta del segugio celebrato a Perugia è “una tragedia giornalistica”.

Sul Los Angeles Times, Edward Jay Epstein ha scritto che Hersh “deve essersi inventato” i fatti e che “The dark side of Camelot”, il titolo dell’inchiesta contro Kennedy, “è diventato un libro sull’inadeguatezza del giornalismo investigativo, più che sull’inadeguatezza di John Kennedy”.
Il brillante e stimato storico dei presidenti, Douglas Brinkley, di impostazione liberal, è arrivato a dire che Hersh “ha sperperato” la sua credibilità giornalistica e che “si può soltanto pensare che l’abbia fatto per i soldi”.
A proposito di un altro libro di Hersh, su Kissinger, il direttore della rivista New Republic, Martin Peretz, ha scritto che “non c’è quasi niente nel libro che non sia sospetto”.
Secondo National Review, nel 1984 Hersh ha distillato alla rivista dell’Università di Chicago la sua filosofia giornalistica: “Non sono interessato alla Storia, perché sto cercando di cambiare le cose”.

La carriera di Hersh ha preso una svolta quando, nel 1969, ha svelato i tentativi dell’esercito americano di nascondere la strage di civili innocenti a My Lai, in Vietnam. Uno scoop clamoroso e decisivo nel definire il sentimento contrario alla guerra dell’opinione pubblica americana.
Dopo un rapido passaggio sessantottino da ufficio stampa del candidato presidenziale pacifista e anti kennediano Eugene J. McCarthy, Hersh ha lavorato per una piccola e militante agenzia di informazione indipendente, Dispatch News Service. Il colpo giornalistico su My Lai gli è valso un Pulitzer e gli ha aperto le porte del New York Times e del grande giornalismo americano. Da allora, e sono passati quarant’anni, Hersh non ne ha praticamente più azzeccata una, incappando abbastanza spesso in cantonate clamorose.

Non soltanto con gli annunci di imminente attacco all’Iran, o di pace con la Siria, scritti ogni sei mesi per il New Yorker, ripresi dai giornali di tutto il mondo e criticati apertamente da colleghi della Cnn e del Washington Post (“ha esagerato”), ma anche una serie di imprecisioni e abbagli che molto spesso è stato lui stesso ad ammettere: nel 1991 ha scritto un libro su Israele centrato su una fonte che, poco dopo, lo stesso Hersh ha detto che “imbroglia con la stessa frequenza con cui gli altri respirano”. Al processo contro il falsificatore dei documenti di Kennedy, che lui aveva confermato, ha ammesso di aver detto una cosa assolutamente sbagliata.
“Non ero lì. Qualcuno potrebbe aver detto una cosa sbagliata. Potrei aver sentito male”, ha detto quando gli è stato contestato un altro scoop su un’operazione militare americana in Afghanistan.
Anche il gran colpo su My Lai è nato grazie a uno stratagemma ai danni di un militare che, per quanto non sminuisca affatto la portata della scoperta, è stato lo stesso Hersh a definire “una parola di tre lettere: lie, bugia”. Nel 1981, Hersh è stato costretto a pubblicare sul New York Times una mega smentita di 25 mila battute (più o meno il doppio dell’articolo che state leggendo) per aver erroneamente accusato un ex ambasciatore americano in Cile di aver collaborato con la Cia al colpo di stato del generale Augusto Pinochet. Una volta, ha scritto National Review, Hersh ha detto che “se la regola per essere licenziati fosse quella di avere torto in un articolo, avrei dovuto essere licenziato molto tempo fa”.

La reputazione di Hersh non s’è più ristabilita, nonostante a metà degli anni Novanta Tina Brown l’abbia assunto al New Yorker. I libri e le inchieste sulle malefatte clintoniane e bushiane sulla sicurezza nazionale, a cominciare dal bombardamento ordinato da Bill Clinton sulla fabbrica di medicine in Sudan fino a ogni aspetto della risposta di Bush dopo l’undici settembre, non sono riusciti a mobilitare le coscienze americane.
C’è qualche eccezione. Nel 2003, Hersh è stato tra i primi a raccontare la storia dei falsi documenti italiani che avrebbero provato l’acquisto iracheno di uranio nigerino, collegandola al discorso sullo stato dell’Unione con cui Bush ha giustificato l’intervento in Iraq.
In seguito quella costruzione dietrologica è crollata, ma continua a circolare ancora oggi e in Italia è stata raccolta da due cronisti di Repubblica, Carlo Bonini e Giuseppe D’Avanzo, molto stimati da Hersh (qualche settimana fa, Bonini e D’Avanzo, assieme al direttore Ezio Mauro, sono stati condannati dal Tribunale di Roma per diffamazione nei confronti di Michael Ledeen, accusato di aver saputo in anticipo che i terroristi palestinesi stavano organizzando la strage palestinese all’aeroporto di Fiumicino nel 1985). Hersh è tornato a far rumore con lo scoop sulle torture nel carcere iracheno di Abu Ghraib che, malgrado tutti glielo attribuiscano, in realtà non è suo, ma della rete televisiva Cbs che con la trasmissione “60 minutes” ha mostrato le foto dello scandalo qualche giorno prima del suo articolo sul New Yorker. 
I suoi critici sostengono che Hersh sia un figlio del “movimento” degli anni Sessanta, il cantore della malvagità naturale del governo, specie di quello americano, lo scavatore di ogni possibile complotto ordito dal sistema politico di Washington contro gli oppressi e inermi.

Gli ultimi due complotti, per dire, sono di qualche giorno fa. Intervistato dalla radio Npr, Hersh ha detto che Dick Cheney, l’ex vicepresidente di Bush, continua a dettare la linea al Pentagono e a influenzare la politica di sicurezza dell’Amministrazione Obama, grazie a una serie di funzionari che risponderebbero a lui e non al nuovo capo della Casa Bianca. L’altro strepitoso esercizio dietrologico è stato pronunciato all’Università del Minnesota, dove Hersh ha detto che gli Stati Uniti hanno un programma segreto con cui uccide clandestinamente i nemici della Cia.
Prove fornite, ovviamente, nessuna. In realtà non bisogna mai prendere sul serio le cose che Hersh dice a voce, rispetto a quelle che scrive. E’ stato lui stesso a spiegare la differenza: “Sto soltanto parlando, non sto scrivendo”.
Secondo Hersh, infatti, ci sono due livelli di etica professionale cui si deve attenere un giornalista. Quando scrive deve essere accurato e preciso, quando parla in televisione o in radio o a una manifestazione pubblica può dire ogni cosa: “Qualche volta cambio eventi, date e luoghi, in un certo senso per proteggere la gente – ha detto a un giornalista del New York Magazine – Se scrivo non posso cambiare le carte in tavola, ma se parlo posso certamente farlo”.

Cambiare dettagli e fornire ricostruzioni non veritiere, fino al punto da rendere la storia non più verificabile, secondo Hersh non è un problema: “Credo che sia assolutamente coerente con quello che faccio professionalmente. Sto soltanto comunicando un’altra realtà che conosco ma che per una serie di motivi – principalmente salvare il culo a qualcuno – non posso scrivere”.

Quattro anni fa il settimanale New York Observer si è accorto che non tornavano parecchie delle storie anti Bush raccontate da Hersh nelle sue frequenti conferenze in giro per l’America. Nel corso degli anni ha raccontato di aver visto videocassette di prigionieri stuprati ad Abu Ghraib dai soldati americani, ha parlato di stupri di bambini in Iraq, di uccisioni a freddo di persone che giocavano a calcio, di al Zarqawi che in realtà esisteva soltanto nella propaganda del Pentagono, di un ruolo diretto di Bush e Karl Rove nelle torture ai detenuti islamici, della sparizione di un miliardo di dollari in contanti dalle casse irachene e così via. Il problema è che non era vero niente, certamente non verificabile, tanto che queste notizie Hersh non le ha mai pubblicate sul New Yorker, una rivista nota per il suo dipartimento di fact-checkers, ma le ha soltanto raccontate a voce.

Gli articoli di Hersh, semmai, hanno problemi di altro tipo, visto che si basano quasi sempre su fonti anonime del Pentagono o dell’oscuro mondo dei servizi segreti. Qualcuno, fatti due conti, ha scritto che Hersh avrebbe fonti anonime in almeno trenta paesi, oltre che in ogni ministero americano. “Se non ci sono notizie”, diceva al suo corrispondente di guerra il caporedattore del “Daily Beast” immaginato da Evelyn Waugh nel romanzo “L’inviato speciale”, “mandaci pure i pettegolezzi”.
Christian Rocca

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