Falafel CafèGilad Shalit, cinque anni di prigionia (e sentirli tutti)

Due giorni fa, alla fine della discussione della tesi, i professori si sono alzati tutti in piedi. Si sono congratulati con Yoal per la laurea in “Scienze informatiche” all’Istituto israeliano di T...

Due giorni fa, alla fine della discussione della tesi, i professori si sono alzati tutti in piedi. Si sono congratulati con Yoal per la laurea in “Scienze informatiche” all’Istituto israeliano di Tecnologia. Poi si sono avvicinati a Hadas, Noam e Aviva. Li hanno guardati dritti negli occhi, hanno stretto loro la mano e li hanno abbracciati. Scardinando, così, un protocollo rigidissimo nelle occasioni ufficiali.

Doveva essere un momento di festa. Perché un figlio si laureava. Ma ci è voluto poco per trasformarlo in un evento drammatico. E commemorativo. Yoal, Hadas, Noam e Aviva sono, rispettivamente, il fratello, la sorella, il papà e la mamma di Gilad Shalit, il soldato rapito cinque anni fa.

A dire il vero Noam e Aviva non sono più genitori qualsiasi. Sono diventati il simbolo di una nazione in perenne attesa. Di un figlio che torna a casa, di un commando militare che rientra alla base, di un governo che raggiunge qualche accordo. Di un compromesso che porti dritto alla pace.

Cinque anni. Milleottocentoventisei giorni. In mezzo, un po’ di tutto. Un nero alla Casa Bianca, qualche dittatore detronizzato e ucciso. Bin Laden sott’acqua. Una rivoluzione in quasi tutto il mondo arabo. E, appunto, il fratello (triste) che si laurea.

Cinque anni. E sentirli tutti. Perché, tra false attese e speranze, lui, Gilad Shalit, il caporale fragile con gli occhiali da ipovedente continua a invecchiare in qualche tugurio palestinese della Striscia di Gaza. E chissà se è meglio sperare in un suo ritorno o sperare che sia almeno vivo. Perché, bisogna ammetterlo, da lui sono giunte solo tre lettere, un breve messaggio audio un anno dopo il sequestro e un video diffuso nell’ottobre 2009.

Sono stati cinque anni anche di fallimenti. Politici, innanzitutto. Poi, umanitari. Gerusalemme, Il Cairo, Ankara, Roma, Parigi, Washington, Mosca. E ancora: la Croce Rossa, l’Unione Europea. Ci hanno provato un po’ tutti. Potenti sì, ma inutili in questo caso.

Perché Gilad è sempre là. Magari l’hanno spostato di qualche metro. Immerso in un territorio ostile e prigioniero di una crisi di cui lui non è colpevole. Ma solo un piccolo ingranaggio che ha avuto la sfortuna di trovarsi nel posto sbagliato (Kerem Shalom), al momento sbagliato (25 giugno 2006) e vicino alle persone sbagliate (commando palestinese).

Oggi in tutto lo Stato ebraico migliaia di persone hanno ricordato Gilad. E nel farlo hanno alzato la voce anche contro il premier israeliano Benjamin Netanyahu perché raggiunga con i terroristi di Hamas un accordo che consenta uno scambio di prigionieri centrato sulla liberazione del soldatino.

Migliaia di persone hanno marciato lungo il valico di Kerem Shalom. E su iniziativa di un giornale, da sabato sera ventiquattro personalità del mondo della cultura e dello spettacolo entreranno per un’ora a testa in una cella senza luce né finestre, per immedesimarsi con le condizioni di prigionia di Shalit.

La famiglia del soldatino ha da tempo perso le speranze di risolvere – politicamente – la situazione. Per questo ha accusato per l’ennesima volta il premier Netanyahu di ostacolare la liberazione del ragazzo. Noam e Aviva si sono pure incatenati davanti alle transenne di protezione della residenza del premier israeliano a Gerusalemme.

Più a sud, circa 350 persone hanno manifestato davanti ad un monumento militare a Eshkol, nella regione del Negev, chiedendo al governo di accettare lo scambio con mille detenuti palestinesi chiesto da Hamas. Mentre in una lettera indirizzata ai manifestanti, il nonno del soldato rapito, Zvi Shalit, ha affermato che il ministro della Difesa Ehud Barak gli ha detto di sostenere l’accordo con Hamas, ma che «Netanyahu si oppone e non può essere persuaso del contrario».

Intanto da Gaza Hamas continua a respingere le pressioni internazionali volte ad alleviare la prigionia di Shalit. «L’unico modo di liberare Shalit – ha detto Sallah Bardaeil, un dirigente – è di accettare le condizioni che abbiamo posto: la liberazione da parte di Israele di un migliaio di detenuti palestinesi fra cui dirigenti del suo braccio armato».

Per non parlare delle fotografie denigratorie del soldato israeliano divulgate oggi sul web. In una di esse c’è un suo “sosia” in divisa davanti ad una torta di cioccolata, con tante candeline: quelle accese simboleggiano gli anni di prigionia già scontati a Gaza, in totale segregazione. Le altre presumibilmente indicano il lungo periodo di prigionia che ancora lo attende. Sulle pareti della cella mani palestinesi hanno scritto in ebraico: «Aiuto, salvatemi ad ogni prezzo», «Ho nostalgia della mamma».

In un’altra immagine lo stesso giovane che impersona Shalit è in possa davanti a due disegni: uno lo mostra ormai con i capelli bianchi, dopo una detenzione che si presume decennale. L’altro disegno rappresenta Ron Arad, il navigatore israeliano caduto con un Phantom in Libano nel 1986 e di cui da allora si sono perse le tracce.

Passano gli anni, cambia il mondo, ma quel pezzetto di terra resta sempre uguale. Con le stesse minacce, gli stessi protagonisti, i soliti pericoli. E un soldatino che aspetta solo di tornare a casa. Vivo.

(Nelle foto: i genitori, il fratello e la sorella di Gilad Shalit; il soldatino come appare nel video inviato dai rapitori; un’istantanea denigratoria pubblicata da Gaza con un finto – e invecchiato – Gilad)

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