Da settimane Marco Pannella conduce una battaglia solitaria e misconosciuta per l’illegalità delle carceri italiane. Mentre scriviamo, infatti, la capienza tollerata dei nostri istituti di pena, ben lontana da quella ottimale, è già stata superata da circa ventimila detenuti. Il che significa persone stipate in celle da sei, sette, otto compagni di prigionia, e dunque sporcizia, promiscuità, sofferenza. Ma il sovra-affollamento ha altri devastanti effetti collaterali: il tasso di suicidi in carcere è circa venti volte più alto che fuori; il personale di polizia è totalmente insufficiente, tanto che sono parecchi gli agenti che arrivano a tolgliersi la vita; i casi di violenza sono sempre più numerosi.
Anni fa il ministro della Giustizia Angelino Alfano annuciò un roboante «piano-carcere», di cui poi si sono perse le tracce insieme ad altri «piani» (casa, energia, ecc.), che doveva portare a costruire nuove prigioni. Non pervenute. Nel frattempo il carcere continua sempre di più a trasformarsi: da luogo di rieducazione (così recita la Costituzione, oltre al sempre citato Beccaria) a strumento di coercizione per i soggetti più deboli, quelli che fatalmente sbagliano con maggiore frequenza: immigrati (metà della popolazione carceraria), tossicomani (un terzo), detenuti in attesa di giudizio (quasi la metà), poveracci. Si parla tanto di riformare la Giustizia, e per molti aspetti sarebbe importante farlo davvero. Ma per una volta sarebbe bello partire dal fondo, invece che dalla cima. Grazie, Marco Pannella.
6 Luglio 2011