Se vivi nella periferia est di Roma difficilmente hai solo vicini di casa italiani. Gli scaffali degli esercenti sono ricolmi di riso sfuso, spezie varie ed ermetici prodotti d’importazione. Ventiquattro ore al giorno sferragliano le macchine da cucire sotto le dita di uomini e donne dagli occhi a mandorla. Nei vicoli d’asfalto tra i palazzi vedi spesso giocare a calcio bambini di svariate origini ma accomunati dalla parlata romanesca che usano la serranda chiusa di un negozio come porta e mettono il più scarso, o il più piccolo, a fare il portiere, come in ogni parte del mondo.
Capita di incontrare oggetti e storie che raccontano di fatica, di integrazione che non c’è e che forse ci sarà tra una o due generazioni.
Frutta e verdura a Torpignattara, ad esempio, sono vendute perlopiù da ragazzi del Bangladesh. Il mio fruttivendolo si fa chiamare Daniele e lavora con il cugino Mimmo. Fanno parte della cooperativa bangla dei fruttaroli che gestisce diversi negozi nella Capitale. Caricano, scaricano, espongono, trattano, vendono birre e alcolici anche se non ne vanno orgogliosi. Mimmo e Daniele sono due bravi ragazzi, due lavoratori instancabili e fanno sempre lo scontrino. Mimmo lo scorso anno si è sposato, sua moglie è partita dal Bangladesh per arrivare a Piazza Malatesta. Ultimamente Daniele ha messo una telecamera in negozio, perché “diversi italiani rubano”. “Napoletani”, ha precisato.
Quando vivevo vicino a Piazza San Giovanni e avevo la Vespa facevo benzina da un altro bangla. I bangla li riconosci perché sono bassi e hanno i denti bianchi, il benzinaio aveva denti bianchissimi ed era spesso di buon umore. Dire che faceva il benzinaio è inesatto. Lui, di notte, stava seduto su una sedia di plastica accanto alla pompa di benzina self service a fare il pieno agli automobilisti in cambio di qualche moneta. Dopo quattro anni il benzinaio ufficiale ha regolarmente assunto il benzinaio bangla, che adesso sfoggia orgoglioso una felpa della Q8. Di giorno lavora regolarmente con il collega italiano, di notte continua a fare quello che faceva prima, per 50 centesimi a rifornimento. L’ultima volta che mi sono fermato parlava romanesco molto meglio di qualche anno fa, l’ho trovato meno sereno e ho avuto l’impressione fosse ossessionato dal denaro. Mi ha chiesto che lavoro faccio, quanto guadagno, quanto costa il mio scooter e mi ha detto che lui manda un sacco di soldi in Bangladesh, dove i suoi parenti fanno la bella vita grazie a lui, che sta “a prende ‘r cardo, ‘r freddo, a pioggia” a due passi da Santa Maria Maggiore. Gli ho detto che per fortuna a Roma non ci sono i monsoni.
Tutte le mattine, da qualche anno, mi fermo ad un semaforo. C’è sempre una lavavetri rom. Qualche anno fa era molto giovane, carina e sorridente. Rimase incinta e continuò a lavorare. Per mesi migliaia di automobilisti videro la sua pancia crescere di settimana in settimana. Poi per un po’ è sparita. Non aveva ancora una pancia da partoriente. Da quando è tornata non sorride più. Chissà se qualcuno degli automobilisti che la vedono ogni mattina le ha chiesto se è andato tutto bene.
Al Pigneto c’è un mercato rionale. Qualche tempo fa ci sono passato in bici. Molti ambulanti immigrati usano carretti per trasportare le loro merci. Sono carretti vecchissimi, almeno del dopoguerra. Sono carretti con le ruote sgonfie, trascinati da generazioni di ambulanti romani e che oggi trascinano, con la stessa fatica, marocchini, pakistani, bangla e indiani. Il percorso di quei carretti è fatto di sudore, lavoro e difficoltà a mettere insieme pranzo e cena. Parte dalla Roma di Pasolini e arriva alla Roma di Mimmo.