Anche quest’estate, come ogni estate, abbiamo ascoltato al telegiornale la solitudine degli anziani nelle nostre città. Una condizione terribile, in realtà protratta per l’intero anno, resa meno sopportabile dal caldo e dalle ferie diffuse. A pensarci bene, però, la solitudine è un problema endemico della nostra epoca: la scomparsa della famiglia allargata, la società dei consumi e le tecnologie ci hanno reso sempre più autonomi, bisognosi di spazio e, in definitiva, più soli. Non voglio dire che «si stava meglio quando si stava peggio», ma è certo che un mucchio di persone passano gran parte della loro vita in solitudine.
La vecchiaia acuisce certamente questo problema, anche perché l’assistenza è stata in massima parte devoluta alle cosiddette badanti. Un anziano/a, cioè una persona la cui socialità andrebbe stimolata, viene sostanzialmente rinchiuso dentro casa insieme a un’altra persona, generalmente straniera, che lo aiuta. Per non parlare della solitudine della stessa badante. Secondo me tutto è insensato e paradossale: a causa della pessima reputazione, spesso meritata, di cui godono case di riposo e centri anziani, il sistema tende ad aumentare la solitudine con il progredire del reddito, in un sistema perverso in cui il privilegio consiste nello stare sempre più soli.
Tra i tanti segmenti del welfare che andrebbero ripensati c’è certamente la terza età. Perché non provare a immaginare un’idea nuova e rivoluzionaria delle case di riposo? Luoghi aperti e accoglienti, magari con scuole e centri sportivi per favorire l’incontro tra anziani e giovani, dotati di ristoranti e spazi dove accogliere i parenti? Naturalmente è solo un’idea – e anzi i pochi interessati con cui ne ho parlato si sono detti decisamente contrari -, magari sbagliata, ma non ditemi che far di tutto per segregarsi in casa sia una soluzione tanto logica.
2 Settembre 2011